Mercati, paura tassi assedia Wall Street, c’è anche l’avvertimento di Bullard (Fed). Borsa Tokyo -0,66%
Effetto Wall Street sull’azionario asiatico. Ieri la borsa Usa ha pagato la delusione per i numeri relativi all’inflazione, che si sono confermati di nuovo superiori alle attese. Il Dow Jones è capitolato nel finale di 431,20 punti (-1,26%), lo S&P 500 ha perso l’1,38%, mentre il Nasdaq Composite è scivolato dell’1,78%.
A peggiorare il sentiment sono state le dichiarazioni del presidente della Fed di St. Louis James Bullard, che ha reso noto che, nella riunione del 1° febbraio scorso, avrebbe preferito un rialzo dei tassi di 50 punti base (e non di 25 punti) e che non esclude che una stretta di tale entità venga varata dalla Fed, nella riunione di marzo.
Sul mercato del reddito fisso, i tassi dei Treasuries Usa a dieci anni si avvicinano sempre di più alla soglia del 3,9%, in rialzo al 3,894%, mentre i rendimenti dei Treasuries a due anni sono saliti al 4,638%. In Asia, l’indice Nikkei 225 della borsa di Tokyo ha chiuso in ribasso dello 0,66% a 27,513.13; la borsa di Hong Kong cede lo 0,89%, Shanghai -0,45%. Male anche Seoul -0,94% e Sidney -0,86%.
A Wall Street i futures sui principali indici Usa puntano con decisione verso il basso: i futures sul Dow Jones scendono dello 0,34%; i futures sullo S&P 500 cedono lo 0,54% e i futures sul Nasdaq segnano un calo dello 0,76%.
Tornando all’indice dei prezzi alla produzione PPI, altro parametro cruciale del trend dell’inflazione, il dato – è salito nel mese del 6% su base annua, in rallentamento rispetto al +6,2% di dicembre, ma decisamente oltre le stime di un incremento del 5,4%.
Su base mensile, il rialzo dell’inflazione misurata dall’indice è stato dello 0,7%, rispetto al +0,4% atteso e in decisa accelerazione rispetto alla flessione dello 0,4% precedente.
Escluse le componenti dei prezzi dei beni energetici e alimentari, il dato core ha segnato inoltre un rialzo del 5,4%, inferiore al +5,5% di dicembre, ma anche in questo caso ben oltre il +4,9% atteso. Idem su base mensile: il PPI core ha riportato un aumento dello 0,5%, oltre il +0,3% previsto e contro il +0,1% atteso.
E’ l’ennesimo dato macro che indica che l’inflazione Usa non sta scendendo come sperato, non solo dai mercati, ma dalla stessa Banca centrale americana guidata da Jerome Powell, nonostante le strette monetarie aggressive varate dallo scorso anno, fino a +75 punti base.
“Entrambi i dati sull’inflazione, questa settimana, hanno dimostrato come l’inflazione rimanga ostinata e come la battaglia (della Fed) non sia finita, specialmente se guardiamo all’indice dei prezzi alla produzione diffuso oggi, che ha segnato il rialzo più forte su base mensile dall’inizio dell’estate – ha fatto notare Mike Loewengart, responsabile della costruzione di portafoglio di Morgan Stanley – Non dovrebbe sorprendere vedere il mercato fare una pausa, visto che le speranze di una Fed dovish nei prossimi mesi si stanno smorzando. Il punto è che gli investitori dovrebbero ammettere che l’inflazione probabilmente non tornerà alla normalità al ritmo sperato, e questo fattore potrebbe comportare una ulteriore volatilità”.
Qualche giorno fa è stato diffuso l’altro dato relativo all’inflazione Usa, l’indice CPI, che è è certo rallentato, tra l’altro per il settimo mese consecutivo, ma in misura inferiore alle attese.
Nel mese di gennaio, l’inflazione Usa misurata dall’indice CPI è salita infatti al ritmo del 6,4% su base annua, oltre il +6,2% atteso dal consensus degli economisti, in rallentamento rispetto al precedente incremento del 6,5%.
Su base mensile, il dato ha segnato un rialzo dello 0,5%, superiore al +0,4% atteso, e in crescita rispetto al precedente aumento dello 0,1%.
L’inflazione core, ovvero l’indice CPI depurato dalle componenti più volatili rappresentate dai prezzi energetici e dei beni alimentari, è salita su base annua del 5,6%, rallentando il passo rispetto al +5,7% di dicembre, ma non come atteso dagli analisti, che avevano stimato un dietrofront della crescita al ritmo del 5,5%.