In pensione a 64,2 anni, il sistema è a rischio squilibrio: l’allarme dell’Inps
A fine dicembre in Italia si contavano circa 16,2 milioni di pensionati, di cui 7,8 milioni uomini e 8,4 milioni donne, con un importo lordo complessivo delle pensioni erogate pari a 347 miliardi di euro. A livello di reddito pensionistico medio mensile, gli uomini percepivano circa il 35% in più rispetto alle donne, con un importo di 2.056,91 euro contro i 1.524,35 euro delle donne. Sono alcuni contenuti nel “XXIII Rapporto annuale sulle pensioni” firmato dall’Inps.
Con l’istituto che lancia un allarme: la possibilità di lasciare il lavoro anticipatamente rispetto all’età richiesta, unita ai trattamenti più favorevoli per chi è andato in pensione prima dell’introduzione del sistema contributivo, potrebbe generare squilibri nel sistema previdenziale.
Rischio squilibrio
Nonostante l’età legale per la pensione di vecchiaia sia fissata a 67 anni, uno dei livelli più elevati nell’Unione Europea, l’età effettiva di pensionamento in Italia resta relativamente bassa, attestandosi a 64,2 anni, grazie alla possibilità di usufruire di diverse forme di uscita anticipata dal mondo del lavoro. Negli anni, l’età media di pensionamento è cresciuta: da 62,1 a 64,6 anni in generale, da 59,5 a 61,5 anni per le pensioni anticipate e da 64,1 a 67,5 anni per quelle di vecchiaia. “Le previsioni Eurostat per l’Ue relative agli andamenti demografici – si legge nello studio – fanno presagire un peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti, con rischi crescenti di squilibri per i sistemi previdenziali, soprattutto per quei paesi, come l’Italia, dove la spesa previdenziale è relativamente elevata”.
In Europa, l’età media di pensionamento è di 64 anni e 4 mesi per gli uomini e 63 anni e 4 mesi per le donne. I tre Paesi con cui gli italiani tendono a confrontarsi più spesso presentano le seguenti età medie di pensionamento: Germania 65,8 anni, Francia 64,8 anni e Spagna 65 anni. L’età per la pensione di vecchiaia, fissata a 67 anni, è la più alta in Europa ed è condivisa solo da Italia e Danimarca.
Non solo: il rapporto evidenzia come sia aumentato l’importo medio degli assegni pensionistici: “Rispetto al 2022, l’importo lordo mensile medio delle pensioni è aumentato del 7,1%”, arrivando a quota 1.373,17 euro. Ciò “in parte a causa della perequazione. Il numero complessivo di persone che percepiscono un reddito pensionistico si attesta a quota 16.205.319”.
Disparità, i motivi
Il rapporto annuale dell’Inps ha messo in luce anche il tema delle disparità di genere sia nei redditi pensionistici sia nelle dinamiche lavorative dopo la genitorialità. Nel 2023, gli uomini percepivano un reddito pensionistico medio mensile superiore del 35% rispetto alle donne, nonostante quest’ultime rappresentino il 52% dei pensionati (8,4 milioni contro 7,8 milioni di uomini) e ricevono solo il 44% del totale dei redditi pensionistici (153 miliardi di euro contro 194 miliardi destinati agli uomini), evidenziando un divario economico significativo.
Un altro aspetto riguarda le politiche familiari e l’impatto della genitorialità sull’occupazione femminile. Nel primo anno dopo la nascita del primo figlio, le madri hanno una probabilità del 18% maggiore di abbandonare il lavoro nel settore privato, rispetto all’11% registrato prima della maternità. Al contrario, i padri non mostrano variazioni significative nel rischio di lasciare il lavoro, che continua persino a ridursi dopo la nascita dei figli. Questo fenomeno mette in evidenza come la genitorialità spinga molte madri fuori dal mercato del lavoro, mentre per i padri la situazione rimane più stabile.
Cala il potere d’acquisto
Notizie non tanto confortanti nemmeno per il lavoro. Nonostante il significativo recupero occupazionale stando agli ultimi dati Istat, “non è corrisposto un aumento dei redditi e delle retribuzioni sufficiente a compensare la perdita di potere d’acquisto causata dall’aumento dell’inflazione”, secondo l’Inps. I salari lordi sono cresciuti del 6,8%, ma a fronte di un incremento dei prezzi tra il 15% e il 17%. Grazie anche agli interventi di decontribuzione, le retribuzioni nette sono aumentate del 10,4% tra il 2021 e il 2023.
Nel 2023, la retribuzione media annua è stata di 25.789 euro lordi, con un valore medio di 39.176 euro per i lavoratori full-time impiegati tutto l’anno. A ottobre 2023, il 79% dei lavoratori (circa 11,6 milioni di persone) ha beneficiato della riduzione contributiva, percentuale che sale all’84% tra le donne e supera il 90% tra i giovani sotto i 35 anni. L’importo medio mensile della decontribuzione ha determinato un incremento della retribuzione imponibile lorda di circa 100 euro, o 123 euro per i lavoratori full-time con contratti attivi per l’intero mese.
“E’ il problema irrisolto del nostro Paese. Da oltre 30 anni, da quando nel 1992 è stata eliminata la scala mobile post referendum, le retribuzioni e le pensioni sono rimaste al palo e non sono state adeguate all’aumento del costo della vita, con la conseguenza che l’Italia da allora cresce poco”, afferma Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori.
“Bene fa il Governo a riconfermare il taglio del cuneo fiscale, ma non basta. Se pensiamo che nel 2023 per via di un’inflazione media pari al 5,7% una famiglia ha speso mediamente 1251 euro in più rispetto al 2022, un single tra 35 e 64 anni ne ha spesi 945, ci rendiamo conto che avere 100 euro in più busta paga, ossia quanto secondo i dati Inps di oggi corrisponde ad un aumento della retribuzione imponibile lorda, sia del tutto insufficiente”, conclude Dona.