I falchi tedeschi riaffilano le armi contro la Bce tra paura inflazione oltre 3% ed elezioni federali di settembre
La pandemia Covid-19 avrà fatto diventare magari l’Europa più solidale e buona, ma di certo non ha spazzato via vecchie tensioni -e vecchi traumi -, che si stanno riflettendo ora tutti nel board della Bce. L’appuntamento è al 10 giugno, quando il Consiglio direttivo della banca centrale europea annuncerà le proprie decisioni di politica monetaria, prima della consueta conferenza stampa della presidente Christine Lagarde.
La domanda è la seguente: ora che si inizia a parlare di un mondo post-pandemia Covid-19, che fine farà il bazooka appositamente anti-Covid sfornato l’anno scorso da Lagarde & Co. ovvero il QE pandemico o PEPP?
Lagarde in primis ha ribadito come, insieme alle operazioni di TLTRO, il PEPP sia uno strumento principale contro gli effetti della crisi pandemica ripetendo, di recente, che la ripresa è ancora incerta e l’aumento dell’inflazione è temporaneo.
Insomma, il PEPP è stato di nuovo blindato, anche se all’inizio di maggio, l’esponente del Consiglio direttivo Philip Lane aveva reso noto che, proprio in occasione del meeting ormai imminente, la Bce avrebbe valutato se aumentare o tagliare gli acquisti di asset che avvengono con il Quantitative easing anti-Covid.
Lo scorso 22 aprile Lagarde tuttavia diceva che non c’era stata alcuna discussione nel board sull’eventualità di avviare il tapering del QE.
“Ci vuole ancora tanto tempo prima di riuscire ad attraversare il ponte della pandemia. L’economia dell’Eurozona sta camminando grazie all’aiuto di due ‘stampelle’: una fiscale e una monetaria. Dobbiamo trovarci su un terreno solido prima di poter camminare con le nostre forze e in modo sostenuto”. Così Christine Lagarde aveva tentato di rassicurare i mercati.
Bce apparentemente coesa: anche Panetta blinda PEPP
La stessa rassicurazione è stata rilanciata nelle ultime ore da altre fonti autorevoli della Bce. In un’intervista rilasciata al quotidiano giapponese Nikkei, l’esponente del board della banca centrale Fabio Panetta ha dichiarato che “le condizioni a cui stiamo assistendo oggi non giustificano la riduzione del ritmo degli acquisti, e una discussione sull’uscita dal Pepp è ancora chiaramente prematura”.
Nello stesso comunicato della Bce dell’ultima riunione di fine aprile si leggeva che “il Consiglio direttivo continuerà a condurre gli acquisti netti di attività nell’ambito del Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (pandemic emergency purchase programme, PEPP), con una dotazione finanziaria totale di 1.850 miliardi di euro, almeno sino alla fine di marzo 2022 e, in ogni caso, finché non riterrà conclusa la fase critica legata al coronavirus”.
Detto questo, nel Consiglio direttivo della Bce la voce dei falchi tedeschi, che pur si è molto affievolita rispetto a quando presidente dell’istituzione era Mario Draghi, si sta facendo sentire eccome.
La voce è sempre quella del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che in passato ha innervosito non poco gli italiani con le sue dichiarazioni contro gli aiuti al Sud Europa. Dichiarazioni bene o male partite sempre dalla paura culturale del debito e dal trauma dell’inflazione, inciso nella psiche dei tedeschi dopo l’esperienza drammatica dell’iper-inflazione che colpì il paese nel 1923, con un tasso giornaliero che balzò fin oltre il 20%.
Ora, nonostante le rassicurazioni varie che sono arrivate dalla Bce e anche dalla Fed sul carattere transitorio del trend rialzista dei prezzi, la paura di un surriscaldamento dell’economia e di conseguenza dell’inflazione, in particolare negli Stati Uniti, si è decisamente riaccesa, soprattutto dopo la pubblicazione dei termometri rappresentati dall’
I mercati in Usa iniziano a prezzare l’ipotesi che la Fed lanci il tapering del suo Quantitative easing già alla fine di quest’anno, in vista del possibile primo rialzo dei tassi che sarebbe ancora lontano (non prima del 2024).
In Eurozona, si legge nell’articolo Warnings from high-level Germans about ‘elephant in the room’, esiste una “forte fazione che spera che il QE pandemico del periodo luglio-settembre continui a essere portato avanti al ritmo relativamente elevato di $80 miliardi di acquisti del secondo trimestre”. L’articolo, che mette in evidenza l’insofferenza crescente dell’altra fazione se così si può dire, nei confronti delle politiche monetarie espansive della Bce, continua:
“Questa fazione enfatizza in generale la debolezza del mercato del lavoro e le prospettive deboli dell’inflazione in Europa nel 2022” nel motivare la richiesta di lasciare immutati gli acquisti degli asset e, dunque, “di iniziare a ridurre l’ammontare dei volumi acquistati mensilmente con il PEPP solo a partire da settembre. Il gruppo (delle colombe praticamente) preme per utilizzare l’intera dotazione del programma entro la fine del marzo del 2022, quando è prevista la scadenza del PEPP, prima magari anche di una sua possibile estensione”.
Un desiderio che sta indispettendo però l’altro fronte, per l’appunto, che fa capo appunto alla Germania dei falchi, soprattutto dopo le dichiarazioni di un altro esponente tedesco del board della Bce, ovvero di Isabel Schnabel, che ha avvertito che il tasso di inflazione nel paese potrebbe balzare oltre il 3% alla fine di quest’anno (C’è da dire tuttavia che la stessa Schnabel ha sottolineato che il balzo delle pressioni inflazionistiche sarebbe temporaneo e non richiederebbe alcun cambiamento alla politica monetaria straordinariamente accomodante della Bce.
Ma niente da fare. Di mezzo c’è anche la campagna elettorale in vista delle elezioni federali in Germania del prossimo 26 settembre: il governo di Angela Merkel ormai è alla fine: la cancelliera Merkel ha deciso di non ricandidarsi e di concludere un quarto mandato che, complice la crisi Covid-19, quasi sicuramente non sarebbe stato comunque seguito da un quinto.
La campagna elettorale si fa infuocata, con l’incognita di ciò che accadrà in Germania – e dunque in Europa e nel mondo – dopo 16 anni di governi Merkel – e la Bce diventa pomo della discordia.
Da una parte ci sono i Verdi, che riscuotono grandi consensi stando ai sondaggi, e che desiderano che i tassi di interesse rimangano molto bassi in Europa, sostenendo ambiziosi piani di ‘green economy’, sociali e di rilancio delle infrastrutture.
Dall’altro lato, diversi sono i politici del partito dei cristiano-democratici di Merkel (CDU) e anche del partito socialdemocratico che invece si oppongono, presentandosi alla stregua anche di paladini di quei risparmiatori che in Germania soffrono anche l’impatto dei tassi negativi sui conti correnti.
E così, alcuni di essi, hanno pubblicato di recente un memorandum, nel quotidiano Süddeutsche Zeitung, paventando una possibile “esplosione sociale e polarizzazione politica” provocate dalle politiche della Bce. Il memorandum è stato firmato da 14 autorità, che includono Edmund Stoiber (CSU), ex primo ministro bavarese; Peer Steinbrück (SPD), ex ministro delle finanze; Franz-Christoph Zeitler, ex vicepresidente della Bundesbank e Paul Achleitner, presidente della commissione di supervisione di Deutsche Bank.
L’ex ministro delle finanze e attuale presidente della Bundestag Wolfgang Schäuble (CDU) – anche lui noto per le sue dichiarazioni anti-Italia – sarebbe stato associato al gruppo, pur non comparendo tra i firmatari. Nel memorandum si legge che “le politiche monetaria ultra-espansive” della Bce provocheranno “una crescita strutturalmente debole”.
Sotto accusa lo stesso Recovery Fund dell’Unione europea da 750 miliardi di euro che – si legge nel memorandum – porta “alcuni stati membri (dell’Ue) a vedere (nel Next Generation EU) un’opportunità per promuovere l’idea relativa alla creazione di un debito comune”, situazione che non è stata possibile “creare all’inizio dell’Unione monetaria”, e che vogliono anche “bypassare il Meccanismo di stabilità europeo creato per i prestiti da erogare in casi di emergenza”.
Nessun esponente del Bundesbank ha firmato il documento, ma da alcune fonti è emerso che il numero uno Jens Weidmann ha dato un contributo a formulare il messaggio.
E così si ripresenta la Germania in versione hawkish, la stessa che un articolo del Financial Times di un bel po’ di anni fa riuscì a presentare tanto bene. L’FT parlò proprio di Weidmann, come emblema di una nazione, la Germania, che vede il debito come un peccato“. Tanto che la parola “schuld”, debito, significa anche “colpa”. Figuriamoci se accanto al debito compare poi la minaccia dell’inflazione.