Finanza Notizie Italia Draghi rilancia gli Eurobond e prende come esempio gli Usa: ‘lì hanno unione bancaria completa e safe asset’

Draghi rilancia gli Eurobond e prende come esempio gli Usa: ‘lì hanno unione bancaria completa e safe asset’

26 Marzo 2021 11:59

Eurobond: una parola che fa saltare sulla sedia soprattutto i falchi tedeschi, un tabù che l’Eurozona non è riuscito ancora a infrangere, e che, nella giornata di ieri, è stato riproposto dall’uomo che ha salvato l’euro: l’attuale presidente del Consiglio Mario Draghi, ex presidente della Bce, durante la videoconferenza dei membri del Consiglio europeo.

“Lo so che la strada è lunga, ma dobbiamo cominciare a incamminarci. È un obiettivo di lungo periodo, ma è importante avere un impegno politico”.

Con il suo intervento, oltre a rimettere in riga l’Unione europea di Ursula von der Leyen affinché si attivi in misura più efficace in merito alla distribuzione dei vaccini, Draghi ha anche preso l’esempio americano, a cui guardare per rafforzare l’importanza dell’euro e dell’Eurozona tutta: “Negli USA hanno un’unione dei mercati dei capitali, un’unione bancaria completa, e un safe asset“, ha fatto notare il premier.

Ma l‘asse del Nord Europa dirà mai sì a una proposta che è stata rigettata in un altro dei periodi più bui della storia dell’Eurozona, ovvero durante la crisi dei debiti sovrani, quando parlare di rottura dell’euro era diventato quasi normale, e quando solo l’intervento di Draghi nelle vesti di timoniere della Bce e di Whatever It Takes, riuscì a evitare la catastrofe?

La devastazione economica provocata dalla pandemia del coronavirus Covid-19 riuscirà a far cambiare idea al blocco del Nord? Draghi riuscirà dove altri, prima di lui, hanno fallito?

Ma l’area euro non ha un debito da saldare verso Draghi?

C’è da dire che, in realtà, qualcuno potrebbe dire che in teoria l’Europa- a proposito di debiti e crediti – è debitrice nei confronti dell’uomo che, sancendo l’irreversibilità dell’euro, ne ha assicurato la sopravvivenza.

Ma ora Draghi guida l’Italia, non la Bce, e per l’Asse del Nord l’Italia è sinonimo di debito pubblico monstre. Un debito pubblico già volato al 156% circa del Pil nel 2020 a causa degli stimoli fiscali straordinari lanciati per mettere in sicurezza il paese in tempi di pandemia. E un debito destinato a crescere, sempre a causa delle spese necessarie per far restare a galla l’economia italiana. Tra l’altro queste spese sono destinate anche salire, se si considerano le indiscrezioni di Bloomberg, secondo cui il conto che il governo italiano sarà costretto a pagare mensilmente per coprire i costi del lockdown potrebbe salire fino a $15 miliardi di euro, rispetto ai precedenti $10 miliardi al mese.

Ora, è vero che l’Europa ha chiuso un occhio verso l’Italia: d’altronde, il debito pubblico non è certo lievitato solo qui. La priorità, lo hanno detto e ribadito tutti i principali leader mondiali, è rimettere in carreggiata l’economia, sicuramente non strozzarla con misure di austerity. Lo stesso Mario Draghi è lì non per varare manovre di lacrime e sangue come fu costretto a fare l’ex premier Mario Monti per raddrizzare i conti pubblici italiani, ma per spendere nel modo più efficace possibile i finanziamenti previsti con il Recovery Fund.

Detto questo, il debito italiano rimane comunque osservato speciale, e a preoccupare è la sua sostenibilità. A tal proposito Veronica Romanis, docente di economia europea presso l’Università Luiss di Roma, ha così commentato a Bloomberg, a proposito di quanto detto da Draghi nella conferenza stampa con cui ha presentato di recente il Dl Sostegni -ovvero che “questo è un anno in cui non si chiedono soldi, si danno soldi” : “Questo è il momento di spendere, ma dobbiamo anche tener conto della sostenibilità del debito. Quanto deficit extra sarà richiesto è una decisione politica, ma l’unico modo per assicurare che il gigantesco debito italiano sia sostenibile è tornare a crescere. E questo non può essere fatto senza riforme e senza un mercato del lavoro meno rigido”.

Eurobond: una storia di nein continui dall’Asse del Nord

Tornando alla spina degli eurobond, negli anni bui della crisi dei debiti sovrani, fu lo stesso investitore miliardario George Soros, in un articolo sul quotidiano tedesco Handelsblatt, a invocare la creazione di un titolo di debito comune:

“La Germania e gli altri Paesi con la tripla A devono, in un modo o nell’altro, creare un sistema di euro-obbligazioni. In caso contrario l’euro crollerà“, aveva paventato il noto filantropo. “Solo la Germania può rovesciare la dinamica distruttrice europea sostenendo la creazione di euro-obbligazioni ed evitando le perdite incalcolabili che il crollo dell’euro avrebbe sul sistema bancario”, aveva avvertito il finanziare. Era l’agosto del 2011, quasi 10 anni fa.

Non se ne fece, come al solito, nulla. Non tutti i tedeschi furono all’epoca contrari al progetto: a parlare dell’importanza di questi strumenti finanziari, fu nel 2012 il numero uno dell’Ifo.

Ma la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva già affossato, anche ripetutamente, l’idea, bollandola come soluzione politicamente ed economicamente sbagliata, oltre a essere controproducente.

Due anni più tardi, quando l’incubo del crac euro sembrava superato, un no arrivava anche dall’allora Commissario agli Affari economici e monetari Pierre Moscovici, che sottolineava come quello non fosse il momento giusto.

Nel 2017 la questione tornava a infuocare i dibattiti tra i vari leader europei, con un documento che indicava l’intenzione della Commissione europea di affrontare la questione spinosa del doom loop, ergo abbraccio mortale tra banche e debito pubblico nazionale, particolarmente spinosa per l’Italia, con i bilanci degli istituti di credito caratterizzati da una elevata esposizione ai BTP.

La visione della Commissione Ue prevedeva la creazione di un’asset class comune, denominata in euro: uno strumento finanziario emesso magari da una entità commerciale, ma garantito da bond sovrani. Per poi creare, magari, asset di debito collettivo più liquidi.

Ma, tra gli altri, l’FT riproponeva la questione Italia: “I beneficiari sarebbero i paesi dell’Eurozona caratterizzati dai più elevati livelli dei debiti, come l’Italia, il cui rapporto debito pubblico-Pil si aggira attorno al 132%, quasi il doppio rispetto a quello della Germania”. E subito arrivava la precisazione del portavoce di Wolfgang Schaeuble, allora ministro delle Finanze tedesco: “La posizione di rifiuto degli eurobond e di condivisione del debito non è cambiata”. Ovunque nei corridoi dell’Unione europea risuonava la famosa frase di Angela Merkel: “No agli eurobond fino a quando io vivrò”.

Europa: con pandemia più clemente, è il momento giusto?

La pandemia del coronavirus ha sicuramente allentato i vari ‘nein’ ribaditi nel corso dell’ultimo decennio dalla Germania e dal cosiddetto asse del Nord.

Diversi gli strumenti che sono stati lanciati negli ultimi mesi, a fronte di una Bruxelles più generosa che ha messo da parte diverse rigidità del passato, arrivando a sospendere anche il Patto di Stabilità, addirittura anche per tutto il 2022.

Da quando è iniziata la nuova era pandemica, gli appelli a favore del lancio degli eurobond sono stati risfoderati più volte.

Un appello in tal senso ha visto protagonista l’ex presidente del Consiglio ed ex numero uno della Commissione europea Romano Prodi che, in una intervista al quotidiano La Stampa, ne ha invocato il lancio, vista la situazione di emergenza, l’anno scorso, di questi tempi:

“È arrivato il momento di mettere in atto un salto di solidarietà, di lanciare una strategia europea per impedire una crisi irreversibile che toccherà anche gli altri Paesi europei. La misura da prendere è l’emissione di Eurobonds, come strumento per raggiungere obiettivi comuni. Gli Eurobonds, da una parte sarebbero il segno della solidarietà, ma consentirebbero anche l’avvio della politica economica e della fiscalità a livello europeo che ancora non esistono”.  

Ancora Prodi: “Se non capiamo che oggi l’Eurobond è legittimato politicamente, oltreché tecnicamente, quando lo capiremo? È arrivato finalmente il momento di dotarsi di uno strumento di intervento straordinario che vale per tutti: il titolo pubblico del debito pubblico europeo”.

Era il 16 marzo del 2020, la pandemia del coronavirus Covid-19 era appena esplosa nel mondo. Ma neanche la pandemia fermava il no fermo, questa volta dell’Olanda, all’adozione della misura, con il governo che paventava l’aumento dei rischi che sarebbe derivato dal lancio di queste emissioni.  Per l’Olanda e la Germania l’emissione di questi strumenti significava accollarsi i debiti di quei paesi che, in tutti gli anni pre-pandemia, non si erano dotati di uno scudo -magari semplicemente frenando sulla spesa pubblica – per fronteggiare eventuali emergenze ed eventi eccezionali. Quei paesi che, ai loro occhi, avevano sperperato soldi facendo lievitare la spesa, in barba alle regole europee sul debito e sul deficit. Quei paesi, Italia in primis, che avevano chiesto – e ottenuto – flessibilità di bilancio ma che poi, per un motivo o per un altro, non erabo riusciti a garantire una traiettoria discendente del debito.

Nonostante le scuse dell’Olanda, con il ministro delle finanze olandese Wopke Hoekstra che ammetteva che avrebbe dovuto mostrare maggiore empatia nel meeting europeo indetto la settimana precedente per valutare opzioni anti-coronavirus a sostegno dell’economia, i falchi non facevano ancora alcun dietrofront sul loro no fermo alla soluzione dei coronabond.

Un sì agli eurobond veniva invece chiesto dall’ex ministro delle Finanze Roberto Gualtieri, sempre nel 2020, dopo che lo stesso ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva battuto i pugni sui vari tavoli europei per chiederne l’emissione. Le dichiarazioni di Conte avevano fatto riaffiorare anche la minaccia di una Italexit: “Se l’Europa non si darà strumenti finanziari all’altezza della sfida, come gli Eurobond, l’Italia sarà costretta a far fronte all’emergenza e alla ripartenza con le proprie risorse. Ma le risposte nazionali rischiano di essere meno efficaci rispetto ad un’azione coordinata europea e possono mettere a repentaglio il sogno europeo”.

Indubbiamente, le tensioni sono poi rientrate con l’approvazione del Recovery Fund-Next Generation EU, il bazooka fiscale da $750 miliardi sui cui i leader europei sono riusciti a trovare finalmente un’intesa.

Al presidente del Consiglio Mario Draghi tocca ora proprio l’impresa titanica di spendere beni i soldi delle risorse europee. I primi fondi, come ha detto il ministro dell’economia Daniele Franco, arriveranno alla fine dell’estate. E qualcuno ha già visto nei fondi Sure una sorta di anticamera degli eurobond che, a differenze dei Recovery bond che saranno lanciati per finanziare il fondo Next Generation EU, prevede anche la mutualizzazione del debito accumulato in passato. L’Europa ascolterà Draghi? Probabilmente per l’Italia, Draghi è l’ultima chance non solo per una ripresa dalla crisi economica provocata dalla pandemia Covid, ma anche per un braccio di ferro contro i falchi del Nord che possa concludersi con una vittoria finalmente italiana.