L’Italia riapre? Tanti negozi chiusi per boom regole-costi anti Covid. Confcommercio: Pil -16% a maggio
L’Italia, finalmente, riapre. Oggi, lunedì 18 maggio, è una data che già molti, da parecchio, si sono segnati sul calendario, per motivi personali o commerciali. Finalmente gli amici si possono rivedere, finalmente ci si può spostare entro la propria regione senza autocertificazione (per gli spostamenti tra le Regioni bisognerà attendere il 2 giugno).
Finalmente, riaprono gli esercizi commerciali, i negozi. Oggi gli italiani possono tornare di nuovo a fare shopping. In teoria. Pochi sono però i commercianti che esultano. Alcuni di loro, intanto, non riapriranno. Troppo esosi i costi da sostenere per riuscire a rispettare tutti i vincoli e le regole imposte con il Dpcm sulle riaperture, firmato ieri dal premier Giuseppe Conte.
Regole che impongono il distanziamento sociale all’interno del negozio, gli ingressi dilazionati (leggi anche file), l’uso di guanti e mascherine. Il decreto stabilisce, anche, che “venga impedito di sostare all’interno dei locali più del tempo necessario all’acquisto dei beni”.
Dunque uno shopping contrassegnato da lunghe file per l’acquisto del capo desiderato, poi quasi la fretta nell’acquistarlo, per non perdere tempo, per non sostare troppo e magari correre il rischio di contaminare qualcuno o farsi contaminare. Niente strette di mano con le commesse/i commessi che si conoscono da un po’, niente chiacchiere inutili con il gestore dell’esercizio. Si entra per comprare, punto e basta. Lo spettro rimane il rischio di contagio.
Non per niente, nel caso di bar, gelaterie, ristoranti, pasticcerie, le attività “sono consentite a condizione che le regioni e le province autonome abbiano preventivamente accertato la compatibilità dello svolgimento delle suddette attività con l’andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e che individuino i protocolli o le linee guida applicabili idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali anche in settori analoghi”.
Bloomberg descrive in un articolo tutte le perplessità che accompagnano le varie riaperture, intervistando i diretti interessati, proprietari e/o gestori di esercizi commerciali. Come Gabriel Meghnagi, imprenditore che gestisce cinque negozi di abbigliamento a Milano e Monza.
“Prima dell’arrivo del virus, Milano viveva nel mondo dei sogni. Hotel e ristoranti erano sempre pieni, il commercio fioriva”. Meghnagi fa parte della schiera fortunata dei commercianti che alzeranno oggi le saracinesche dei loro punti vendita. Ma lui stesso sottolinea che molti commercianti non riusciranno ad aprire, anche perchè non ce la faranno a continuare a pagare quegli affitti tradizionalmente alti che caratterizzano le aree di shopping più prestigiose di Milano.
Come per esempio, la Galleria Vittorio Emanuele II. Tre milioni di euro l’anno per 600 metri quadrati “non sono più accettabili, almeno nel breve-medio termine”.
La situazione sarà totalmente diversa rispetto al passato anche a Corso Buenos Aires, tra le vie commerciali più trafficate di Milano: qui Bloomberg riporta che la belga Moleskine, seguendo la scia della svedese H&M, probabilmente non riaprirà.
Spostandosi a Roma, la situazione non cambia: David Sermoneta, 57 anni, ammette di avere molti dubbi sulla propria capacità di attenersi rigorosamente a tutte le regole anti-coronavirus COVID-19 sfornate, il cui rispetto è condizione sine qua non per la riapertura della sua boutique romana.
“Non è ancora chiaro quante volte dovrò sanificare gli abiti che vendo”, dice. Andando anche al di là di questo, la domanda che molti titolari di negozi si pongono riguarda la reazione potenziali clienti. Come potrà la stessa esperienza di shopping, sinonimo in precedenza per molti di svago, divertimento, evasione, leggerezza, rimanere la stessa, visto che bisognerà fare la fila in attesa di entrare nel negozio, indossare mascherine e guanti, rispettare il distanziamento sociale e fare pure in fretta per non sostarte troppo nel negozio?
Quanti clienti decideranno di gettare la spugna magari perchè hanno semplicemente fretta, o in quanto irritati dalle ormai ben note file che si devono fare, anche per acquistare un gelato, una pizza al taglio, un pacchetto di sigarette?
Non la vede affatto bene Confcommercio che, in una nota, mette ero su bianco tutto il suo pessimismo, prevedendo per il Pil italiano una caduta del 16% a maggio. Così l’associazione dei commercianti sulle riaperture: “Da oggi possono riaprire circa 800 mila imprese, ma il completo lockdown di aprile ha avuto conseguenze che il sistema economico italiano non ha mai sperimentato dopo la seconda guerra mondiale. Infatti, dopo la flessione del 30,1% di marzo, nel mese scorso i consumi sono crollati, rispetto ad aprile 2019, del 47,6%. Pochissimi i segmenti che sono riusciti a registrare un segno positivo (alimentazione domestica, comunicazioni ed energia), per molti altri, invece, soprattutto quelli legati alle attività complementari alla fruizione del tempo libero, la domanda è stata praticamente nulla)”.
Cifre “quasi inverosimili che, purtroppo, testimoniano gli effetti derivanti dalla sospensione, non solo di gran parte delle attività produttive, ma anche di quelle sociali e relazionali dirette“.
Il diktat del distanziamento sociale e la rigidità dei protocolli di sicurezza provocheranno una concentrazione di perdite su pochi ma importanti settori, come il turismo e l’intrattenimento, ma anche la mobilità e l’abbigliamento.
“La fine del lockdown non sarà uguale per tutti – scrive Confcommercio – Ma soprattutto, dopo la riapertura si avvertiranno anche dolorosi effetti su reddito e ricchezza che si protrarranno ben oltre l’anno in corso”. Di conseguenza, anche il rimbalzo congiunturale del 10,5% del Pil, stimato per il mese di maggio, “appare modesto se confrontato alle cadute di marzo ed aprile e, nel confronto annuo, la riduzione è ancora del 16%“.
E non saranno sufficienti “gli ulteriori recuperi di attività attesi da giugno in poi per cambiare significativamente la rappresentazione statistica di una realtà fragile e profondamente deteriorata. Una realtà in cui l’eccesso di burocrazia, male endemico di cui soffre il nostro Paese, ha presentato il suo conto anche durante la pandemia e nella quale anche l’efficacia dei provvedimenti messi in cantiere dalle autorità nazionali e internazionali rimane un’ulteriore incognita”.
Anche Bloomberg cita le stime di Confcommercio, per la precisione un sondaggio condotto la scorsa settimana. Ebbene, da questo sondaggio risulta che un negozio retail italiano su dieci – qualcosa come 270.000 negozi- rischia il fallimento; che la situazione è particolarmente drammatica nel Nord, dove la metà circa delle piccole imprese della Lombardia, è a rischio di collassare.
L’associazione prevede un tonfo delle vendite, nella regione, pari a -40%, a causa degli 8 miliardi di euro circa di fatturato perso durante la fase del lockdown. E fino a un terzo dei negozi di Milano potrebbe non riuscire ad aprire.