Paura inflazione, Goldman Sachs paventa recessione Usa. Rischio inversione curva rendimenti
In tempi di guerra gli analisti di Goldman Sachs lanciano l’allarme recessione, facendo riferimento all’appiattimento della curva dei rendimenti dei Treasuries Usa, che sta facendo aleggiare sui mercati lo spettro dell’inversione: di per sé, l’inversione della curva rappresenta un segnale, da parte dei mercati del reddito fisso, di una recessione probabile nell’arco dei 12-18 mesi successivi.
Stavolta, il rischio è che l’inversione colga gli investitori di sorpresa, che insomma gli investitori non siano preparati a incassare il suo arrivo.
L’ultima inversione della curva dei rendimenti avvenne nel 2019, a seguito di una serie di rialzi dei tassi da parte della Fed.
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Brutto segnale dalla curva dei rendimenti dei Treasuries: iniziata l’inversione
Sono mesi che il mercato dei titoli di stato Usa è caratterizzato da un forte restringimento degli spread tra tassi di breve termine e tassi di lungo termine: qualcosa di fisiologico, viste le attese di un ciclo di strette monetarie da parte della Fed di Jerome Powell. Le mosse delle banche centrali vengono infatti prezzate soprattutto dalla parte iniziale della curva.
Il trend si è poi intensificato, da quando l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha scatenato un balzo tale dei prezzi delle commodities – petrolio ma non solo – da far pensare a una ulteriore accelerazione dell’inflazione (nel breve periodo).
Il risultato è che lo spread tra i tassi a 2 e 10 anni è sceso sotto quota 20 punti base nella giornata di lunedì scorso, rispetto agli oltre 90 pb di inizio gennaio, fino a 18,47 punti, al minimo dal periodo in cui i mercati erano crollati, scontando lo shock della pandemia Covid-19, per la precisione al minimo dal 16 marzo del 2020.
Ieri, dopo l’ennesimo dato shock sull’inflazione Usa, che ha confermato un’accelerazione dei prezzi al consumo al ritmo del 7,9% su base annua, nuovo record degli ultimi 40 anni, i tassi sui Treasuries a 10 anni sono volati fino al 2,021%, valore più alto dal 17 febbraio, in rialzo per la quarta sessione consecutiva, a conferma della fase rialzista più forte in un mese.
I tassi sui Treasuries a 30 anni sono saliti fino al 2,42%, al massimo dal 13 marzo scorso. E i tassi a due anni, che di norma riflettono le aspettative sui tassi di interesse, sono balzati fino all’1,735%, valore massimo dal 20 settembre del 2019.
A questi livelli non si può certo parlare di inversione della curva, ma sicuramente di appiattimento della curva stessa: è evidente che i tassi a due anni si stiano avvicinando sempre di più a quelli decennali, riducendo di conseguenza quello spread tanto monitorato dai mercati, dagli analisti e dagli economisti. Ma occhio anche ad altri tassi, quelli breakeven dei TIPS.
Il tasso di “breakeven” dei Treasury Inflation Protected Securities (TIPS) a 10 anni – che indica le stime dei mercati sul ritmo annuale, in media, dei rialzi dell’indice dei prezzi al consumo – è balzato al 2,885%, a conferma di come il mercato stia scommettendo su un tasso di inflazione pari al 2,9%, in media, per il prossimo decennio.
Il tasso breakeven sui TIPS a cinque anni è salito invece al 3,369%, dopo aver chiuso al 3,324% nella seduta di mercoledì, appena al di sotto del record testato martedì al 3,402% (dati Reuters).
E Bloomerg riporta come il tasso di breaken a due anni abbia toccato il 4,44% nelle ultime sessioni.
In una nota il responsabile strategist sui tassi di Goldman Sachs, Praveen Korapaty ha spiegato che, se i mercati continueranno a prevedere che l’impatto di uno shock petroliferò sarà temporaneo, ulteriori shock al rialzo dell’inflazione dovrebbero provocare “una inversione della curva dei rendimenti”.
Da segnalare che l’inversione della curva indica che i mercati scommettono su una inflazione inferiore nel lungo termine rispetto a quella di breve periodo.
Riguardo allo spread dei tassi Usa a 2 e 10 anni come indicatore di una imminente recessione, un articolo di Investopedia spiega l’affidabilità del parametro.
“Lo spread dei Treasuries tra i 10 e i 2 anni è uno degli indicatori più affidabili di una recessione entro l’arco dell’anno successivo. Da quando la Fed ha pubblicato questo dato nel 1976, (lo spread) ha predetto in modo accurato ogni recessione dichiarata negli Stati Uniti, senza alcun falso positivo (c’è stato in reatà un falso positivo, negli anni ’60). Il 28 agosto del 2019 lo spread scese al di sotto dello zero, a conferma di una curva dei rendimenti invertita, indicando così una possibile recessione negli Stati Uniti, nel 2020. E, come sappiamo, l’economia Usa è scivolata quell’anno in recessione”.
Di questo rischio recessione ha parlato ancora Goldman Sachs nelle ultime ore, nel tagliare le stime sulla crescita del Pil Usa su base reale del 2022.
Guardando all’anno in corso, l’outlook di Goldman Sachs sul Pil Usa del primo trimestre è stato dimezzato dalla crescita +1% precedentemente attesa, a +0,5%; per il secondo trimestre si stima ora un’espansione dell’1,5%, contro quella pari a +2,5% dell’outlook precedente; le stime del terzo trimestre sono state lasciate invariate a un ritmo di crescita del 2,5%, mentre quelle del quarto trimestre sono state migliorate dal +2% al +2,5%. Per l’intero 2022, Goldman Sachs ha detto di prevedere una crescita del Pil Usa del 2,9% su base annua, rispetto al +3,1% precedentemente atteso.
“Ma anche dopo questi downgrade – ha avvertito la divisione di ricerca del colosso bancario Usa – intravediamo ancora il rischio che le stime relative alla crescita vengano riviste al ribasso, in modo particolare se le sanzioni (contro la Russia per aver invaso l’Ucraina) si dovessero intensificare, o se i prezzi del petrolio mettessero a segno un ulteriore rialzo, per esempio balzando al target di 175 dollari al barile che i nostri strategist delle commodities ritengono possibile, nel caso in cui le perdite dell’offerta di petrolio raggiungessero i 4 milioni di barili al giorno”.
“In più – hanno sottolineato ancora da Goldman – non abbiamo considerato in che modo la crescita potrebbe essere colpita in caso di scarsità dei metalli visto che, a parte il palladio, solo una piccola parte della domanda di materie prime da parte degli Stati Uniti è soddisfatta dalle esportazioni russe. Tuttavia, se le interruzioni nelle catene di approviggionamento si traducessero in difficoltà nel riuscire a reperire metalli chiave e altre materie prime, riducendo la produzione (fattore che si è già verificato nel caso di alcuni produttori di auto europei), l’impatto negativo sulla crescita potrebbe essere più significativo”. Insomma: la recessione negli Usa a causa degli effetti negativi scatenati dalla guerra tra la Russia e l’Ucraina è uno scenario che non può essere affatto escluso.