Italia la scampa ancora: nessun downgrade su rating. Ma i moniti al governo M5S-Lega sono tanti
L’Italia la scampa ancora: nessun downgrade dall’agenzia di rating Standard & Poor’s, che conferma il proprio giudizio, come avevano fatto nelle settimane precedenti anche le colleghe Fitch e Moody’s . Non per niente i BTP tirano un sospiro di sollievo, lo spread scende in area 254 punti base dopo essere balzato fin oltre quota 270 nelle ultime sessioni, e si restringe al minimo in più di una settimana. Tassi decennali in calo al 2,53% circa.
S&P ha lasciato invariato il suo giudizio sull’Italia a BBB. Ingessato anche l’outlook, che rimane negativo.
Tutto bene? Non proprio visto che, secondo indiscrezioni di La Repubblica, l’Italia rimarrebbe nel mirino di Bruxelles, pronta ad aprire quella procedura di infrazione per debito che era stata evitata alla fine dello scorso anno dopo l’accordo sulla manovra del governo M5S-Lega, ma la cui minaccia non è mai rientrata.
Appuntamento cruciale e piuttosto imminente è il prossimo 7 maggio, quando la Commissione europea diffonderà le proprie previsioni primaverili. Successivamente, in data 5 giugno, Bruxelles procederà con il Country Report che potrebbe siglare l’avvio di una procedura per debito, oltre a imporre a Roma una maxi manovra per il 2020.
Se l’Italia è riuscita a evitare un downgrade che avrebbe portato il rating a un livello appena al di sopra di quello junk, ovvero spazzatura, è stato per merito delle famiglie: S&P ha infatti rilevato un calo per il debito privato.
Il debito pubblico rimane invece la spina nel fianco del paese e, tra l’altro, “i rischi per la posizione di bilancio dell’Italia stanno aumentando”, visto che “il governo italiano sta invertendo il processo di consolidamento di bilancio”.
Di conseguenza, la previsione è di “un rialzo del debito-pil”. Tutto questo, mentre proprio oggi un articolo pubblicato sull’inserto l’Economia del Corriere della Sera certifica un’altra amara realtà. Realtà che è scritta tutta nel titolo: “I conti non tornano. Spendiamo solo per pagare il debito”.
“Per i keynesiani di casa nostra il deficit spending va bene comunque. A prescindere. Nella buona e nella cattiva sorte. Nei giorni di sole e nei giorni di pioggia. Con le vacche grasse e con le vacche magre. Faccio fatica – ammette il giornalista Nicola Rossi – a pensare che John Maynard Keynes abbia mai sostenuto una simile sciocchezza. Ma che cosa abbia sostenuto Keynes è in realtà, tutto sommato, irrilevante. L’economista britannico è infatti ormai diventato la proverbiale foglia di fico dietro cui si nasconde la incapacità delle classi politiche italiane (a cui i ministri ‘tecnici’ non sono certo estranei) di riportare la finanza pubblica su un sentiero pienamente sostenibile nel medio periodo. La loro disponibilità ad assecondare gli obiettivi politici del momento piuttosto che gli interessi dei cittadini di oggi (e di domani)”.
Nicola Rossi non ha alcuna remora a definire quei politici italiani che osannano tanto Keynes “keynesiani da asilo nido”.
“Quel che colpisce è che altrove nel mondo è raro riscontrare su questo punto la uniformità di posizioni della classe politica che si registra in Italia. Sfumature diverse, distinte tonalità, accenti differenti non mancano ma sono largamente coperte dal pensiero unico di un keynesismo – mi scuso – da asilo infantile. Che ha dato un contributo importante se non determinante – forse è arrivato il momento di fare un bilancio – al declino del Paese”.
E per Rossi la colpa è una sorta di peccato originale che viene commesso almeno da vent’anni visto che, proprio in questo lasso di tempo, e al netto della Grande Crisi, “la finanza pubblica (italiana) ha esibito disavanzi (entrate pubbliche minori delle spese) prossimi al 3% e sostanzialmente a prescindere dall’andamento dell’economia (..).Si sono fatti disavanzi negli anni buoni (per quel che il termine può significare in Italia) e meno buoni: nel 2006 (in cui si riuscì a crescere – pensate un po’ – del 2 per cento) e nel 2014 (anno di crescita zero o quasi)”.