Theresa May: cronaca di una seconda bocciatura annunciata. Spettro no-deal Brexit più vicino
Cronaca di una bocciatura annunciata. La premier britannica Theresa May ha incassato l’ennesima seconda sconfitta a Westminster, con la Camera dei Comuni che, di nuovo, ha bocciato la sua proposta sulla Brexit. Proposta abbellita con presunte ‘garanzie vincolanti’ che Bruxelles avrebbe dato a May il giorno prima a Strasburgo, sulla durata non illimitata del backstop sul confine irlandese. Ma proposta che non ha convinto, comunque, la maggioranza dei parlamentari, soprattutto dopo l’opinione legale, resa nota alla Camera dei Comuni, del procuratore generale del Regno Unito Geoffrey Cox, secondo cui il rischio legale che il Regno Unito finisse con l’essere intrappolato nell’Unione doganale, a causa del backstop sul confine irlandese, era rimasto lo stesso, anche dopo l’incontro tra la premier e il numero uno della Commissione europea, Jean-Claude Juncker.
La proposta è stata affossata con un margine di 149 voti: 391 i voti contrari, rispetto ai 242 voti favorevoli.
Così la premier britannica May dopo la seconda umiliazione:
“Continuo a credere che il miglior risultato per il Regno Unito sia lasciare l’Unione europea in modo ordinato, con un accordo, e che l’accordo frutto delle trattative (da me concluse con Bruxelles) sia il migliore e, di conseguenza, il migliore accordo a disposizione”.
E ora, cosa succede? Dopo la disfatta, la premier ha confermato il calendario delle votazioni a Westminster.
Oggi, la Camera dei Comuni è chiamata a deliberare sulla prospettiva di un no-deal Brexit, lo scenario peggiore che analisti ed economisti temono ma che i Brexiteers più convinti sostengono, visto che ora il timore è che quello per cui ha votato la maggioranza degli elettori presentatisi alle urne quel 23 giugno del 2016 sembra sempre più un’utopia.
Nel caso in cui i parlamentari dovessero votare sì all’uscita del Regno Unito dall’Ue senza che sia stato raggiunto un accordo (ratificato dal Parlamento), il governo sarà costretto ad agire per concretizzare l’esito del voto: il 29 marzo, tra meno di tre settimane, la Brexit ci sarà. E sarà una no-deal Brexit.
Se invece i parlamentari bocceranno l’opzione di un no-deal Brexit, allora ci sarà un’altra votazione, prevista per domani, sull’estensione dell’Articolo 50.
Ma affinché diventi effettiva, tale estensione dovrà essere votata da tutti gli altri 27 paesi membri dell’Unione europea. E Bruxelles, così sembra, vorrà prima sapere se Londra abbia intenzione di revocare l’articolo 50 e, anche, se opterà, alla fine, costretta dagli eventi, per un secondo referendum.
Se è vero che il Regno Unito ora rischia, a -16 giorni dalla data ufficiale della Brexit fissata al prossimo 29 marzo, lo scenario di una no-deal Brexit, è altrettanto vero che qualche spiraglio si apre per chi da mesi e anni auspica un secondo referendum.
Dal suo profilo Twitter Alberto Nardelli, responsabile del desk europeo di BuzzFeed, ha reso noto ieri notte di aver appreso da alcune fonti senior Ue che il Regno Unito ora dispone di tre opzioni:
- Lasciare l’Ue senza che ci sia un accordo il prossimo 29 marzo
- Chiedere una estensione dell’Articolo 50
- Revocare l’articolo 50.
Riguardo all’opzione di revocare l’Articolo 50, questa è stata confermata dalla Corte di Giustizia europea con una sentenza che ha fatto discutere, e che ha sancito che Westminster può revocare il suo addio all’Unione europea, svuotando praticamente di significato l’esito del referendum del 23 giugno del 2016, con cui la maggioranza del popolo britannico ha scelto il ‘Leave’.
Lo scorso dicembre, la Corte di Giustizia europea “ha stabilito che, quando un paese membro ha notificato al Consiglio l’intenzione di ritirarsi dall’Unione europea, così come ha fatto il Regno Unito, lo stesso paese è libero di revocare quella notifica in modo unilaterale. Questa possibilità rimane in vigore per tutto il tempo in cui l’accordo di divorzio raggiunto tra il Regno Unito e quello stato membro non è entrato ancora in vigore o, nel caso in cui l’accordo non sia stato ancora raggiunto, per tutto il periodo di due anni dalla data della notifica dell’intenzione di uscire dall’Ue, inclusa ogni possibile estensione, non sia ancora scaduto. La revoca deve essere decisa a seguito di un processo democratico che rispetti i requisiti costituzionali della nazione. Una tale decisione inequivocabile e incondizionata deve essere comunicata in modo scritto al Consiglio europeo. Una tale revoca conferma che l’appartenenza di uno stato membro all’Ue rimane invariata riguardo allo status di stato membro, e decreta la fine della procedura del divorzio”.
COSA ACCADE IN CASO DI NO-DEAL BREXIT
Detto questo, la minaccia di un no-deal Brexit permane. E ci sono anche cifre precise su quanto il Regno Unito perderebbe nel caso in cui questo worst case scenario si concretizzasse.
All’inizio di febbraio il governo di Theresa May ha diramato infatti un’analisi, confermando contestualmente che il Tesoro ha messo a disposizione una liquidità superiore a 4 miliardi di sterline, nel caso in cui si concretizzasse il worst-case scenario, ovvero una Brexit senza accordo (no-deal Brexit): di questa somma, 2 miliardi è stata allocata per l’anno fiscale 2019-2020. Il Financial Times ha riportato inoltre le rassicurazioni della Bank of England, che sarebbe disposta a tagliare i tassi di interesse a sostegno dell’economia, in caso di Brexit disordinata.
Stando al report governativo, in caso di uscita del Regno Unito dal blocco europeo senza un accordo, il Pil britannico calerebbe fino a -9%; i prezzi dei beni alimentari schizzerebbero verso l’alto, se si considera che il 30% di essi arriva proprio dai paesi dell’Unione europea che, in assenza di un accordo, non avrebbero remore a imporre dazi doganali. Dazi doganali da guerra commerciale, visto che, secondo l’analisi, l’Ue potrebbe arrivare a imporre tariffe fino al 70% sulle esportazioni di manzo, al 45% su quelle di agnello e fino al 10% su quelle di auto.
L’impatto sull’economia sarebbe diverso a seconda delle regioni: Scozia e Galles subirebbero nei prossimi 15 anni una contrazione del Pil dell’8%; l’Irlanda del Nord pagherebbe con un calo del 9% e il nord-est dell’Inghilterra con una perdita di ben -10,5%.
Tra i settori, a pagare il dazio più alto sarebbero la pesca scozzese e gli allevamenti di ovini in Galles, se si considera che, in quest’ultimo caso, il 92% della carne di agnello viene esportata in Unione europea.
Lo sanno bene i diretti interessati, che in precedenza hanno lanciato diversi allarmi sul rischio che il settore finisca con lo scomparire.