Fiscal drag: la spirale che erode gli aumenti di stipendio
Cos’è il fiscal drag, ossia il drenaggio fiscale, che incide direttamente sugli stipendi dei lavoratori?
Volendo sintetizzare al massimo, il drenaggio fiscale è la spirale che si innesca con l’aumento dei salari e la crescita delle tasse.
In poche parole più la busta paga è alta, maggiori sono le imposte che vi sono addebitate. Questa, però, non è la principale minaccia, che pesa direttamente sui redditi dei lavoratori.
Il drenaggio fiscale – conosciuto anche come fiscal drag – è uno dei tanti macigni che incombono sui redditi dei lavoratori, che vengono adeguati verso l’alto, dopo che sono stati colpiti dall’inflazione.
Cosa succede in estrema sintesi: quando si innesca la spirale prezzi-salari con l’aumento nominale dei redditi, che vengono adeguati all’inflazione, il lavoratore può trovarsi – per effetto della crescita nominale – ad un’aliquota maggiore.
Questo lo porterà a pagare più tasse, senza che del suo aumento di stipendio ne benefici l’economia reale.
Drenaggio fiscale, stipendio più alto con meno soldi in tasca
Il drenaggio fiscale, volendo sintetizzare, fotografa la realtà con la quale devono convivere molti lavoratori:
la crescita formale dei redditi comporta una reale perdita del potere d’acquisto. Situazione che si dovrebbe evitare, in un momento in cui il caro vita si scarica molto drammaticamente sulle spalle dei consumatori.
Per aiutarci a comprendere come funziona il drenaggio fiscale, possiamo riportare un esempio citato dall’Osservatorio Conti Pubblici della Cattolica di Milano ed adattarlo al presente.
Nel caso in cui in Italia il tasso di inflazione dovesse aggirarsi intorno al 10% ed i redditi dovessero aumentare nella stessa misura, un lavoratore con un reddito, nel 2022, di 14.900 euro si ritroverebbe a guadagnare nel 2023 16.930 euro.
Il nuovo reddito comporterebbe un salto di aliquota.
Il contribuente entrerà nella fascia ordinaria del 23% fino a 15.000 euro ed è sottoposto all’aliquota del 25% sui 1.390 euro della sua fascia di secondo livello.
Prima di aver ottenuto l’aumento pagava 3.400 euro di imposte ed il suo reddito reale sarebbe stato pari a 10.780 euro.
Passando alla fascia successiva pagherà qualcosa come 3.450 euro per la prima fascia di imposizione e 358 per la seconda.
In estrema sintesi si ritroverà con una pressione fiscale pari ad oltre 400 euro, senza aver ottenuto delle reali modifiche al suo potere d’acquisto. Per i lavoratori questa è una perdita secca: a guadagnarci è unicamente l’Erario.
Le stime per il futuro
Una stima sempre della Cattolica di Milano prevede che con scenari di inflazione al 6% il fiscal drag – o drenaggio fiscale – causerebbe danni ai contribuenti italiani per una cifra compresa tra gli 89 e i 142 milioni di euro, che corrispondono ad una cifra compresa tra 1,5 e 2,35 euro a cittadino.
Con uno scenario al 10% medio d’inflazione, tale stima potrebbe arrivare tra 148 e 236,6 milioni, una quota che comunque nel peggiore dei casi non supererebbe i 4 euro a famiglia.
L’Ocp sottolinea che gli effetti del fiscal drag “si realizzerebbero se tutti i redditi crescessero in linea con l’inflazione, cosa che per ora non sta avvenendo: i redditi dei lavoratori dipendenti per il momento hanno reagito poco all’aumento dell’inflazione“.
In Italia, oggi come oggi, non si sta verificando la spirale prezzi-salari che aveva caratterizzato gli anni Settanta e gli anni Ottanta, quando le fasi dell’inflazione era molto più lunga e prolungata. Ma soprattutto la progressività dell’imposta era leggermente più strutturata.
Nel 1983 gli scaglioni Irpef erano 32 oggi, invece, sono solo quattro.
L’alta inflazione, oggi, come oggi, è un tema importante perché erode i consumi ed il Pil.
Il fiscal drag, oggi, è un problema di secondo piano nl quadro delle sfide economiche dell’Italia.