Negli ultimi trent’anni gli stipendi sono rimasti al palo. Tutti i problemi del mercato del lavoro
Nell’arco di trent’anni gli stipendi degli italiani sono rimasti pressoché invariati, crescendo solo e soltanto dell’1%.
Sostanzialmente possiamo affermare che la busta paga dei lavoratori non è cresciuta, a differenza di quanto è accaduto negli altri paesi dell’area Ocse, dove gli stipendi sono cresciuti del 32,5%.
A mettere in evidenza questi numeri scioccanti è un rapporto dell’Inapp, ossia l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, che è stato presentato alla Camera dei Deputati.
I problemi sintomatici del mercato del lavoro
Il mercato del lavoro ha ripreso a crescere dopo lo stop causato dalla pandemia.
Il percorso intrapreso, però, appare molto accidentato per colpa di una serie di criticità strutturali, che, almeno fino ad oggi, lo hanno contraddistinto.
Tra questi fattori ricordiamo:
- bassi salari;
- scarsa produttività;
- poca formazione;
- welfare che non riesce a proteggere adeguatamente tutti i lavoratori. I 4 milioni di lavoratori non standard e gli autonomi non hanno alcun tipo di paracadute.
Il mercato continua ad essere ancora fortemente condizionato da un particolare fenomeno, battezzato labour shortage.
Molte imprese sono in difficoltà nel riuscire a coprire i posti vacanti: la forbice del matching da domanda ed offerta si sta allargando sempre di più.
Questi, in estrema sintesi, sono alcuni degli argomenti sviluppati all’interno del rapporto Inapp 2023, che ha soffermato parte della propria attenzione anche sugli stipendi, che ormai da troppo tempo sono rimasti al palo.
Dopo la crisi pandemica le dinamiche del mercato del lavoro hanno ripreso a crescere ma con rallentamenti dovuti sia a fattori esterni, dal conflitto bellico alle porte dell’Europa, alla crescita dell’inflazione e della crisi energetica, ma anche – spiega Sebastiano Fadda, presidente dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – a fattori interni, come il basso livello dei salari che si lega alla scarsa produttività, alla poca formazione e agli incentivi statali per le assunzioni che non hanno portato quei benefici sperati, se pensiamo che più della metà delle imprese (il 54%) dichiara di aver assunto nuovo personale dipendente, ma solo il 14% sostiene di aver utilizzato almeno una delle misure previste dallo Stato. Occorrono quindi degli interventi mirati e celeri capaci di indirizzare il mercato del lavoro verso una crescita più sostenuta, che non può prescindere dalla rivoluzione tecnologica e digitale che sta modificando i processi produttivi.
Gli stipendi rimangono al palo
Sicuramente uno dei principali problemi del mercato del lavoro è costituito dagli stipendi, che sono rimasti al palo.
Nell’arco di trent’anni – il periodo analizzato è quello compreso tra il 1991 ed il 2022 – i salari reali sono rimasti sostanzialmente invariati.
È stata registrata una crescita pari ad un misero 1%, contro il 32,5% degli altri paesi dell’area Ocse.
Entrando un po’ più nel dettaglio e prendendo in considerazione unicamente il 2020 – il terzo anno della pandemia Covid 19 – in termini reali gli stipendi sono calati del 4,8%.
Nel corso dello stesso anno è stata registrata anche la più ampia differenza con la crescita dell’area Ocse, con un -33,6%.
Uno degli altri problemi registrati è quello della scarsa produttività.
Dalla seconda metà degli anni Novanta, la crescita della produttività è risultata essere inferiore rispetto a quella degli altri paesi del G7.
Il divario più ampio è stato registrato nel corso del 2021, quando è stato pari al 25,5%.
Calano le assunzioni
Nel 2022 il numero delle assunzioni è stato inferiore rispetto a quello del 2021.
Sono state registrate, infatti, 414mila nuove attivazioni a fronte di 713mila dell’anno precedente.
Le nuove assunzioni hanno coinvolto un numero maggiore di uomini che di donne (54% rispetto al 46% delle donne).
La pandemia ha colpito principalmente i giovani, che erano già stati colpiti dalla precedente crisi del 2008: questa categoria, ora come ora, conferma il recupero delle quote occupazionali andando a costituire nel 2022:
- il 26% delle attivazioni nella fascia compresa tra i 25 ed i 24 anni;
- il 21% nella fascia 35-44 anni;
- il 20%nella fascia 45-54 anni.
Agli aspetti che abbiamo appena analizzato se ne aggiunge un’altro, più strettamente di carattere demografico.
La popolazione e la forza lavoro stanno invecchiando.
Nel 2022, per ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra i 19 ed i 39 anni, 900 avevano un’età compresa tra i 40 ed i 64 anni.
Nel 2023 quest’ultimo valore a superato le 1.400 unità. Per ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono ben 1.900 lavoratori adulti-anziani.
Le dimissioni
Anche in Italia sono parecchi gli occupati che hanno deciso di lasciare il proprio lavoro.
Almeno il 14,6% degli occupati con un’età compresa tra i 18 ed i 74 anni – stiamo parlando di 3,3 milioni di persone – si stima che abbia intenzione di dimettersi.
Almeno l’1,1% di questa quota sarebbe disposto a farlo anche a fronte di una riduzione del tenore di vita, mentre il 13,5% lo farebbe nel caso in cui dovesse riuscire a trovare altri redditi.
A prescindere dalle motivazioni, la quota più di chi ha intenzione di dimettersi si riscontra tra quanti hanno un diploma (18,9%).
La percentuale cala con il crescere dell’anzianità demografica e delle dimensioni del comune nel quale risiedono.
La formazione
Molti problemi sorgono anche per quanto riguarda la formazione, che interessa sempre meno lavoratori.
Solo il 9,6% delle persone con un’età compresa tra i 25 ed i 64 anni ha partecipato a corsi di formazione.
Questa quota, comunque vada, costituisce un avanzamento rispetto al 2020, quando si fermava solo al 2,4%. Ma che tiene il nostro paese ancora lontano dalle percentuali europee, il cui corrispondente valore si attesta all’11,9%.
Il nostro paese perde terreno rispetto all’avanzamento registrato nel corso dell’anno precedente: -2,3%.