Criptovalute popolari tra gli investitori che ricevono consulenza finanziaria
Gli italiani pensano che le criptovalute possano essere utilizzate nei portafogli come asset non correlati in un’ottica di diversificazione. Così emerge da un’indagine commissionata da Wisdom Tree a CoreData Research secondo cui più di nove consulenti italiani su dieci (il 94%) hanno parlato con i propri clienti degli investimenti in criptovalute e un quinto dei clienti (il 21%) è disposto a puntare su questa asset class investendo al di fuori del rapporto di consulenza.
Cosa ne pensano i consulenti italiani delle criptovalute
Negli ultimi anni, è cresciuta la consapevolezza riguardo le valute digitali e gli investimenti verso questa nuova asset class e molti investitori professionali oggi sono consapevoli del ruolo che gli asset digitali possono svolgere all’interno di un portafoglio. Ad esempio, il 16% dei consulenti italiani come emerge dall’indagine ritiene che le criptovalute possano essere impiegate come copertura contro le perturbazioni del sistema finanziario globale e quasi la metà (47%) dei consulenti italiani ritiene adeguata un’allocazione su criptovalute nell’ordine dell’1-2%.
Inoltre, dall’indagine emerge che la regolamentazione al momento, pur essendo tra i fattori considerati come ostacolo, non è considerata la barriera maggiore all’allocazione su quest’asset class. Il 32% dei consulenti italiani ha affermato che è la mancanza di valore intrinseco il motivo più comune per cui ha deciso di non investire su criptovalute a titolo professionale. Per i consulenti finanziari italiani, altre due barriere più comuni sono appunto l’assenza di regolamentazione (30%) e la volatilità (28%), entrambe ritenute un grosso ostacolo all’allocazione del capitale sugli asset digitali.
L’indagine infine sottolinea che alla domanda sulla propensione al rischio dall’inizio della pandemia di Covid-19, quasi la metà (47%) dei consulenti in tutta Europa ha affermato che i propri clienti sono alla ricerca d’investimenti più rischiosi, forse spinti dall’aumento dell’inflazione e dai bassi tassi d’interesse. In Italia, il 33% ha affermato che la propensione al rischio è rimasta invariata, mentre il 46% ha notato un aumento della domanda d’investimenti più rischiosi.