Delocalizzazione imprese: il costo del lavoro all’estero è un quarto di quello di un dipendente in Italia
La delocalizzazione dei processi produttivi delle imprese italiane si sta intensificando. Sulla base degli ultimi dati disponibili al 2015, nel solo settore manifatturiero i casi sono saliti a 6.532 imprese a controllo nazionale ma localizzate all’estero che impiegano 846.665 addetti, con una dimensione media di 130 addetti, e registrano un fatturato di 238.967 milioni di euro. Sono alcuni numeri analizzati da Confartigianato, che fanno seguito a un altro recente studio, quello della Cgia di Mestre, secondo cui il numero delle partecipazioni all’estero delle aziende italiane è aumentato del 12,7% tra il 2009 e il 2015.
In termini di occupazione, ogni quattro addetti in Italia oggi se ne conta uno in una controllata nazionale all’estero. Guardando agli ultimi otto anni (2007-2015) l’occupazione delle imprese manifatturiere italiane delocalizzate è salita di 94mila unità (+12,5%) mentre quelle residenti in Italia hanno perso quasi un milione di posti di lavoro (-985 mila addetti, pari al 21,4% in meno). Una delle ragioni è rappresentata proprio dal basso costo del lavoro nei paesi esteri: qui si registra un costo medio di 12.600 euro per addetto, pari a circa un quarto (27,1%) dei 46.600 euro di un dipendente di una media impresa residente in Italia.
I paesi della delocalizzazione
Chi pensa che la meta preferita dalle imprese italiane per delocalizzare all’estero sia l’Europa dell’Est, in parte si sbaglia. A eccezione della Romania, nelle primissime posizioni si trovano i paesi con i quali i rapporti commerciali sono intensi e con economie tra le più avanzate al mondo. Il principale paese per occupati risulta infatti gli Stati Uniti con 139mila addetti, seguiti dalla Cina con 89mila. La Romania con 82mila arriva solo in terza posizione. Poi il Brasile (con 71mila), la Germania con (44mila), la Polonia (41mila) e la Francia (40mila).