Export e non solo: i 7 falsi miti sulle aziende italiane
Sfatare i falsi miti non è una missione da poco, soprattutto se radicati nel tempo. Anche quelli in economia non sono facili da “smontare”, specie se hanno a che fare con le imprese italiane e la loro internazionalizzazione. Qualcuno ci ha provato, mettendo in particolare in discussione sette miti sulle aziende italiane nel panorama internazionale. L’Italia è più un Paese acquirente che un Paese venditore e due aziende italiane su tre non utilizzano il marchio “Made in Italy” nel loro business internazionale. Questi sono solo due dei sette inaspettati risultati evidenziati nella ricerca “Le aziende italiane alla conquista dei mercati esteri” commissionata da Hsbc ed elaborata dall’Università di Padova, che ha intervistato oltre 800 aziende italiane di medie e grandi dimensioni.
L’Italia è un paese in vendita. La questione non è proprio così: quasi la metà delle medie e grandi aziende italiane ha realizzato almeno un’acquisizione e, nell’81% dei casi, l’acquisizione è avvenuta all’estero. Solo il 13% delle aziende di medie e grandi dimensioni italiane è stato acquisito da società estere.
L’esportazione aiuta le aziende a risolvere i loro problemi di produttività e redditività. La ricerca di Hsbc mostra che l’esportazione amplifica sia i comportamenti virtuosi sia viziosi delle imprese. In dettaglio, mette in luce che non sussiste alcuna relazione tra redditività e produttività da un lato, e apertura verso l’internazionalizzazione dall’altro. Il livello più alto di produttività e redditività è infatti registrato sia tra le aziende che esportano oltre il 75% del proprio fatturato, sia tra i player nazionali, a dimostrazione che la redditività e la produttività non appartengono solo ai forti esportatori. La ricerca analizza anche gli indici Return on Equity (11,7%), Return on Sales (5,7%) e Return on Investment (11%) che si dimostrano più elevati nelle aziende con livello di esportazione più alto o più basso.
Le aziende italiane non innovano. I risultati della ricerca evidenziano che solo una percentuale inferiore al 30% delle aziende non innova, mentre quasi il 90% degli esportatori più rilevanti ha introdotto innovazioni di prodotto e di processo negli ultimi tre anni. Vi è quindi una relazione tra esportazioni e innovazione: le aziende innovatrici hanno maggiori probabilità di aumentare il loro grado di internazionalizzazione.
L’Italia esporta solo manifattura. La manifattura non è l’unico ambasciatore delle esportazioni italiane: infatti, oltre il 65% delle principali società italiane che operano nel settore terziario esporta.
Le aziende italiane si recano all’estero per tagliare i costi. In realtà solo il 22% di queste si reca all’estero ridurre i costi. Il principale motivo che spinge le aziende ad aprirsi ai mercati esteri è la presenza di clienti o fornitori chiave a livello locale (39%), oltre alla disponibilità di partner locali qualificati (20%) e alla vicinanza dei mercati di sbocco (18%).
La burocrazia e le questioni fiscali sono solo problemi italiani. Secondo la ricerca, il 61% delle principali aziende italiane considera la burocrazia come la principale criticità nell’operare all’estero. Le altre barriere ai processi di globalizzazione riguardano la difficoltà di reperire adeguato capitale umano (47%), la protezione della proprietà intellettuale (per il 39% delle imprese), le differenze linguistiche e culturali. Inoltre, la corruzione rappresenta un aspetto problematico per una società su cinque (19%).
Il marchio ‘Made in Italy’ è l’unico fattore che incrementa le esportazioni del Paese. Dallo studio emerge che la maggior parte delle aziende italiane non usa il marchio “Made in Italy” nelle proprie relazioni internazionali. Infatti, solo un terzo (il 35%) delle medie e grandi aziende intervistate lo utilizza, anche se chi lo impiega riconosce l’elevato valore aggiunto che genera (90%). Le aziende italiane che utilizzano questo marchio appartengono prevalentemente ai settori tessile, della moda (80%) e alimentare (59%).