Incubo Imu e Irpef, i Comuni dove tornano rincari. Cgia avverte su aumento pressione fisco e commissioni bancarie
Mentre il vicepremier, leader della Lega e ministro dell’Interno Matteo Salvini conferma il suo obiettivo di tasse al 15% non per tutti ma per tanti, un’inchiesta del Sole 24 Ore fredda le speranze degli italiani di ritrovarsi con più soldi in tasca. Ennesima doccia gelata per l’Italia: “Imu, Irpef e tassa di soggiorno: tornano i rincari dei Comuni”. Rincari che sono notevoli: “dopo tre anni di tregua, le imposte locali tornano ad aumentare. In mezzo a qualche rara agevolazione, i bilanci preventivi 2019 dei Comuni mostrano i primi effetti della ‘mano libera’ che l’ultima manovra ha lasciato agli amministratori”.
L’Imu cresce in quasi una città su dieci (il 9,4%), tra gli 85 capoluoghi che hanno risposto al Sole 24 Ore del Lunedì. “L’addizionale Irpef, invece, aumenta nel 7,3% dei casi – precisa il quotidiano di Confindustria – Sembrano percentuali contenute, ma in molti Comuni le aliquote avevano già raggiunto il massimo nel 2016, quando era scattato lo stop ai rincari. Senza contare che il blocco non si era applicato alle città in dissesto, come Catania, Terni (che ha il prelievo top dal 2018) e Caserta (..) Comunque, sono i tributi minori a registrare più ritocchi: dall’imposta di soggiorno (10,7%) alla Tosap (6,2%) fino all’imposta di pubblicità (con il record del 37,8%, motivato però da ragioni tecniche)”.
“Gli aumenti dell’Imu riguardano in genere tipologie di immobili particoli o utilizzi specifici, che beneficiavano di un regime di favore. Ad esempio, a Pordenone arriva al 10,6 per mille il prelievo sui negozi sfitti (categoria C/1) nel centro cittadino. A La Spezia cresce dal 9,6% al 10,6 l’aliquota sui centri commerciali (D/8). A Torino passa dal 7,6 al 10,6 per mille l’Imu sulle abitazioni concesse dal proprietario in uso gratuito al parenti; sale al 10,6 per mille anche il prelievo sulle case affittate a canone libero per le quali il locatore aveva concesso uno sconto all’inquilino. Sempre a Torino, spinta dalle difficoltà del bilancio cittadino, cresce l’Imu sulle case affittate a canone concordato (dal 5,75% al 7,08 per mille). Scelta analoga a La Spezia (dal 4,6 al 6 per mille), espressamente motivata dalla volontà di riassorbire lo sconto statale del 25% varato nel 2016. Di segno opposto la decisione di altre città: limano l’aliquota Firenze (dal 7,6 al 5,7 per mille, Grosseto (dall’8,6 all’8) e Pavia (dal 10,6 al 9,6).
Occhio anche all’Irpef, a cui Il Sole 24 Ore aveva dedicato un altro approfondimento nell’articolo di ieri, dal titolo poco confortante. “Irpef, Milano record: 11.271 euro. Nelle città pressione tra 25 e 34%”.
In tale articolo il quotidiano fa notare che “il problema è che il conto, tra imposta nazionale e addizionali di Regioni e Comuni, è sempre alto. Anzi, è altissimo nelle aree più ricche, che trovano il record a Milano con 11.271 euro di Irpef media per contribuente e un peso sul reddito dichiarato che arriva al 34,5%. Ma anche ad Andria, la cenerentola dei redditi 2017 insieme a Barletta e Trani, l’imposta si fa sentire: chiede in media 3.396 euro su redditi che non arrivano a 22mila euro pro-capite. Anche lì, insomma, il fisco chiede un euro ogni quattro”.
Viene citato il caso di Roma, dove “il reddito medio si ferma a 6.500 euro abbondanti sotto ai livelli milanesi. Ma il fisco quasi si disinteressa di queste differenze, e chiede ai cittadini della Capitale il 33,5%, cioè solo un punto percentuale meno della pressione Irpef meneghina. ‘Merito’ delle super-addizionali regionali e comunali, che soprattutto al Campidoglio servono per puntellare bilanci complicati più che a garantire servizi in linea con il conto Irpef.
C’è poi il caso di Napoli e Biella. “Nelle due città l’Irpef media è quasi identica, pochi spiccioli sopra i 6.500 euro all’anno: ma nel capoluogo campano questa cifra vale il 31,5% del reddito, mentre in Piemonte si ferma al 28,8%. Dove conti e servizi zoppicano, insomma, il fisco chiede di più anche a chi ha di meno”.
Tra l’altro, nell’articolo odierno, viene riportato anche come nei casi di quelle città – non molte- che hanno ritoccato verso l’alto le addizionali Irpef, l’aumento è stato piuttosto consistente.
“A Barletta ad esempio, se la soglia di esenzione resta ferma a 7.500 euro, per i contribuenti con redditi fino a 15.000 euro l’aliquota passa dallo 0,2% allo 0,5 per cento. Mentre va dallo 0,4% allo 0,6% per lo scaglione fino a 28mila euro e dallo 0,6% allo 0,7% fino a 55.000 euro. Aliquote – scrive Ol Sole – praticamente già al livello massimo per gli scaglioni di reddito più alti”.
Tutto questo mentre nella nota “Con meno Pil, pressione fiscale in aumento”, la Cgia di Mestre nel fine settimana ha avvertito che “la revisione al ribasso della crescita ha messo drammaticamente in luce non solo il rallentamento in atto della nostra economia e la difficoltà di mantenere in ordine i nostri conti pubblici, ma anche un probabilissimo aumento della pressione fiscale che, secondo l’Ufficio studi della CGIA, nel 2019 rischia di sfiorare il 43 per cento“.
“Nel dicembre scorso – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo, in base a quanto riporta la nota – il Ministero dell’Economia aveva previsto una crescita dell’1 per cento del Pil che avrebbe contribuito a far salire di poco la pressione fiscale del 2019, esattamente al 42,3 per cento. Ora, con un Pil che quasi sicuramente supererà di poco lo zero, il peso fiscale è destinato ad aumentare in misura più consistente rispetto alle previsioni. In questo momento, tuttavia, è ancora prematuro stabilirne la portata: per avere maggiore contezza dovremo aspettare i dati della trimestrale di cassa. L’asticella, comunque, è destinata a salire ed è molto probabile che si attesterà appena sotto la soglia del 43 per cento”.
“Sia chiaro – precisa la nota – ciò non vuol dire che le famiglie e le imprese pagheranno più tasse. La pressione fiscale, infatti, è data dal rapporto tra le entrate fiscali e quelle contributive sul Pil. Se si abbassa sensibilmente il denominatore è quasi certo che il risultato del rapporto è destinato ad aumentare in maniera significativa. Con una pressione fiscale che negli ultimi decenni è salita costantemente senza che ciò abbia comportato un incremento dei servizi offerti a famiglie e aziende – segnala il segretario della CGIA Renato Mason –si sono sacrificati i consumi e gli investimenti. Inoltre, è diventato sempre piùdifficile fare impresa, creare lavoro e redistribuire ricchezza. Alle piccole e piccolissime imprese, in particolar modo, il calo dei consumi delle famiglie ha creato non pochi problemi finanziari, costringendo molte partite Iva a chiudere definitivamente l’attività”.
La Cgia di Mestre avverte anche sul rischio rincaro delle commissioni bancarie.
“Gli unici soggetti economici che subiranno un deciso aumento del carico fiscale saranno le banche, le assicurazioni e le grandi imprese. Se per i primi due soggetti l’aggravio di imposta nel 2019 sarà pari a 1,8 miliardi di euro, per i secondi il maggior gettito peserà per 2,5 miliardi di euro.
“Non è da escludere– conclude Zabeo – che gli istituti di credito riversino sulla clientela i maggiori costi causati dall’inasprimento fiscale. Come? Ritoccando all’insù le commissioni bancarie che, ricordo, incidono ormai per il 40 per cento circa dei ricavi cnetti delle banche. In buona sostanza, bisognerà fare molta attenzione affinché i costi dei conti correnti, i servizi bancomat/carte di credito, le operazioni di incasso/pagamento, la collocazione dei titoli e le gestioni patrimoniali non subiscano aumenti ingiustificati”.