Le pensioni baby costano come il reddito di cittadinanza e di più di Quota 100
Le cosiddette pensioni baby costano alle casse dello Stato circa 7 miliardi di euro all’anno (pari allo 0,4 per cento del Pil nazionale). Praticamente lo stesso importo previsto quest’anno per il reddito/pensione di cittadinanza e addirittura superiore di quasi 2 miliardi della spesa necessaria nel 2020 per pagare gli assegni pensionistici a coloro che beneficeranno di Quota 100. A fare i conti ci ha pensato l’Ufficio studi della CGIA.
“Le pensioni baby sono uno degli esempi più clamorosi di come l’Italia, dopo la crescita registrata nei primi decenni del secondo dopoguerra, abbia successivamente abbandonato l’idea di fondare il proprio futuro sulla solidarietà intergenerazionale – ha sottolineato il segretario della CGIA Renato Mason – In materia previdenziale, ad esempio, fino agli inizi degli anni ’90 abbiamo scambiato il benessere raggiunto in diritto acquisito, scaricando i costi sulle nuove generazioni. I giovani di oggi, infatti, spesso lavorano con contratti a termine, percependo buste paga molto leggere. Nonostante ciò, sono chiamati a dare il loro contributo per coprire gli assegni generosi versati alle vecchie generazioni andate in quiescenza con il sistema retributivo, mentre la propria pensione, strettamente legata ai contributi versati, quasi certamente avrà dimensioni economiche molto contenute”.
Tra i pensionati baby sono i dipendenti pubblici ad aver lasciato il posto di lavoro in età più giovane (41,9 anni), mentre nella gestione privata l’età media della decorrenza della pensione è scattata dopo (42,7 anni). In entrambi i casi, comunque, l’abbandono definitivo del posto di lavoro è avvenuto praticamente con 20 anni di età in meno rispetto a chi, oggi, usufruisce di quota 100.
Ancorché siano una piccola minoranza rispetto al numero totale presente l’1 gennaio 2020, quando si parla di pensionati baby il ricordo va agli ex dipendenti del pubblico impiego che hanno potuto beneficiare di norme estremamente favorevoli per andare in pensione anticipatamente. La possibilità ebbe inizio a partire dal 1973 fino ai primi anni ’90, quando la riforma Amato del 1992 e la successiva riforma Dini del 1996 posero fine a questo privilegio. In questo ventennio, nel pieno del regime retributivo, sono stati riconosciuti i requisiti per il pensionamento alle impiegate pubbliche con figli dopo 14 anni, sei mesi e un giorno. Mentre per gli statali era possibile lasciare il servizio dopo 19 anni e mezzo e per i lavoratori degli enti locali dopo 25 anni.