Risparmio gestito, in Italia costi molto più alti che altrove. E mancano incentivi per fondi passivi, la nuova scommessa
I risparmi tartassati. Si intitola così l’articolo firmato da Ferruccio de Bortoli, pubblicato nell’inserto L’Economia del Corriere della Sera. Articolo che risponde a un interrogativo: quello se i rendimenti e i servizi che vengono offerti dai gestori in Italia siano competitivi. De Bortoli precisa che l’approfondimento non è un atto di accusa nei confronti di un settore fondamentale dell’economia, come l’industria della gestione del risparmio”. Si tratta, piuttosto, “uno stimolo ai migliori, e sono tanti, affinché non siano complici dei peggiori, che non sono pochissimi”.
Viene fatto notare che in Italia i costi del risparmio sono più elevati che altrove. Si citano “intollerabili pratiche di costo”, e si fa notare anche come l’Italia sia indietro rispetto a una tendenza sempre più marcata negli Stati Uniti: quella dei fondi passivi – che includono per esempio gli ETF – ,ancora poco diffusi e conosciuti nel paese, rispetto alle gestioni attive dei fondi comuni, mutual fund.
In America per esempio un ETF che replica i titoli dello S&P 500 costa lo 0,03%, a fronte dello 0,7% di “un prodotto analogo” in Italia, dove, tra l’altro, “vi sono pochi incentivi, da parte di banche e reti, a collocarlo”. Mentre “in Svizzera, dove il sistema pensionistico integrativo è forte – e per sua natura attento ai costi- la presenza di fondi passivi ha ormai una penetrazione intorno al 50%”.
De Bortoli riporta anche il caso del colosso mondiale del risparmio gestito, Vanguard, praticamente l’inventore dei fondi passivi che “nel 2016, secondo Morningstar, ha incrementato il suo patrimonio gestito, negli Stati Uniti, di 277 miliardi di dollari“: “sostanzialmente – si legge – con i ‘passivi’ raccoglie un miliardo al giorno“.
Vanguard starebbe pianificando, tra l’altro, il suo arrivo in Italia.
D’altronde i fondi passivi vengono guardati con crescente interesse dalla comunità finanziaria globale, e gli investitori li privilegiano sempre di più, anche per “le difficoltà da parte delle gestioni attive, di battere il benchmark, ovvero il loro obiettivo di riferimento”.
Viene citato uno studio annuale di Standard and Poor’s e Dow Jones, da cui è emerso che l’83% dei fondi globali attivi, anche su un arco di tempo di 15 anni, non fa meglio dei vari indici di riferimento azionari”.
In questa fase di transizione, se negli Stati Uniti si è assistito a una notevole riduzione delle commissioni che, fa notare de Bortoli, “dal 2000 al 2016 sono passate dall’1% allo 0,63% in media, tenendo conto dei costi di gestione, amministrazione e distribuzione, esclusi eventuali oneri di ingresso e di uscita, in Europa – dati Morningstar – i costi sono stati attorno all’1%. E pari all’1,42% in Italia (rispetto allo 0,62% in Svizzera).
“Se soltanto guardiamo invece ai fondi attivi – continua de Bortoli -la differenza tra le commissioni applicate nel nostro paese e quelle nella media degli altri, è ancora più rilevante. Uno studio accademico del professor Martjin Cremers, pubblicato su Journal of Financial Economics, stima i costi italiani al 2,59%, contro l’1,66% in media a livello internazionale.