Smart working: i lavoratori ‘agili’ italiani sono in aumento, più soddfisfatti e coinvolti
Solo qualche giorno fa, in occasione della seconda edizione di “Sindaci d’Italia”, il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Nunzia Catalfo, si è soffermata sul tema dello smart working: definendola una strada per rivitalizzare i piccoli comuni. Ma a che punto è lo smart working in Italia? La buona notizia è che il numero di smart worker italiani (ovvero quei lavoratori dipendenti che godono di flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro, disponendo di strumenti digitali per lavorare in mobilità) cresce. Quella meno positiva è che la dinamica di crescita procede a rilento. A fare il punto sul lavoro agile la ricerca dell’osservatorio smart working della School of Management del Politecnico di Milano, secondo la quale gli smart worker sono circa 570mila, in aumento del 20% rispetto al 2018.
Una realtà nel 58% delle imprese
La percentuale di grandi imprese che ha avviato al suo interno progetti di smart working è del 58%, in lieve crescita rispetto al 56% del 2018. A queste vanno aggiunte un 7% di imprese che ha già attivato iniziative informali e un 5% che prevede di farlo nei prossimi dodici mesi. Del restante 30%, il 22% dichiara probabile l’introduzione futura e soltanto l’8% non sa se lo introdurrà o non manifesta alcun interesse. A fronte di questa crescita modesta, c’è da registrare un aumento di maturità delle iniziative, che abbandonano lo stato di sperimentazione e vengono estese ad un maggior numero di lavoratori: circa metà dei progetti analizzati è già a regime e la popolazione aziendale media coinvolta passa dal 32% al 48%.
Tra le Pmi c’è un aumento della diffusione di questa modalità di lavoro, con i progetti strutturati che salgono dall’8% dello scorso anno al 12% attuale, quelli informali dal 16% al 18%, ma aumenta in modo preoccupante anche la percentuale di imprese disinteressate al tema (dal 38% al 51%).
È tra le Pubbliche Amministrazioni che si registra la crescita più significativa: in un anno nel settore pubblico raddoppiano i progetti strutturati di smart working (passando dall’8% al 16%), il 7% delle PA ha attivato iniziative informali (l’1% del 2018), il 6% le avvierà nei prossimi dodici mesi. Le più avanzate sono le PA di grandi dimensioni, che nel 42% dei casi hanno già introdotto iniziative strutturate e nel 7% hanno attivato iniziative informali. Nonostante questi dati incoraggianti, il ritardo resta evidente, con quasi 4 PA su 10 che non hanno progetti di smart working e sono incerte (31%) o addirittura disinteressate (7%) rispetto alla sua introduzione. “Va inoltre sottolineato come i progetti di smart working nelle PA – si legge nello studio – risultino ancora limitati in termine di diffusione interna poiché coinvolgono mediamente il 12% della popolazione dell’amministrazione, percentuale radicalmente diversa a quella delle imprese private e vicina al 10% che la direttiva Madia definiva come limite inferiore all’adozione. Questo dato sembra testimoniare come, pur essendosi finalmente attivate, molte PA abbiano seguito un approccio di mero adempimento normativo”.
Più soddisfatti e coinvolti di altri lavoratori
Mediamente presentano un grado di soddisfazione e coinvolgimento nel proprio lavoro più elevato di coloro che lavorano in modalità tradizionale: il 76% si dice soddisfatto della sua professione, contro il 55% degli altri dipendenti; uno su tre si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera e ne condivide valori, obiettivi e priorità, contro il 21% dei colleghi.
Tra i principali benefici riscontrati dall’adozione del lavoro agile viene indicato il miglioramento dell’equilibrio fra vita professionale e privata (46%) e la crescita della motivazione e del coinvolgimento dei dipendenti (35%). Ma la gestione degli smart worker presenta secondo i manager anche alcune criticità, in particolare le difficoltà nel gestire le urgenze (per il 34% dei responsabili), nell’utilizzare le tecnologie (32%) e nel pianificare le attività (26%), anche se il 46% dei manager dichiara di non aver riscontrato alcuna criticità. Se si interrogano gli smart worker, invece, la prima difficoltà a emergere è la percezione di isolamento (35%), poi le distrazioni esterne (21%), i problemi di comunicazione e collaborazione virtuale (11%) e la barriera tecnologica (11%).
“Lo smart working non è solo una moda, è un cambiamento che risponde alle esigenze delle persone, delle organizzazioni e della società nel suo complesso, e come tale è un fenomeno inarrestabile. La dinamica con cui sta crescendo nel nostro Paese tuttavia, non è abbastanza veloce – afferma Mariano Corso, responsabile scientifico dell’osservatorio smart working -. In realtà importanti per l’economia del nostro sistema Paese come Pmi e PA la diffusione dello smart working non è ancora sufficiente. Questo limita la portata del contributo che lo smart working può dare per rendere più moderno il mercato del lavoro, le imprese e le PA più competitive ed attrattive e le nostre città più inclusive e sostenibili”.
Per Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio smart working, bisogna andare oltre il concetto di lavoro da remoto e interpretarlo come un percorso di trasformazione dell’organizzazione e della modalità di vivere il lavoro da parte delle persone. “Agire sulla flessibilità, responsabilizzazione e autonomia delle persone significa trasformare i lavoratori da ‘dipendenti’ orientati e valutati in base al tempo di lavoro svolto a ‘professionisti responsabili’ focalizzati e valutati in base ai risultati ottenuti”, conclude Crespi.