Spread sopra 300: quali effetti su imprese e famiglie? Le più penalizzate sono le Pmi
Con uno spread sopra i 300 punti base, sono più a rischio le imprese che le famiglie. Soprattutto le piccole e medie imprese (Pmi). A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia che ha analizzato gli effetti dell’aumento dello spread sull’economia reale del paese, guardando sia alla situazione di liquidità delle imprese sia al peso dei titoli di Stato e al numero di mutui per l’acquisto della casa in capo alle famiglie.
“E’ ovvio che con il perdurare di uno spread così elevato a farne le spese sarebbe tutto il sistema paese, in quanto il costo del debito pubblico, ad esempio, subirebbe un forte aggravio”, ha detto il coordinatore dell’Ufficio studi, Paolo Zabeo. Tuttavia, nell’economia reale, escludendo le banche, i più esposti in termini assoluti risultano essere le imprese che si troveranno a pagare di più il denaro ricevuto in prestito dalle banche e in prospettiva avranno meno credito a disposizione, perché per gli istituti di credito sarà più difficile erogarlo. La percentuale di famiglie esposte, all’opposto, è molto contenuta, quindi gli eventuali aumenti del costo del denaro e la svalutazione dei titoli di Stato coinvolgerà un numero di famiglie abbastanza contenuto, anche se nel medio periodo la stretta creditizia potrebbe farà diminuire l’offerta di credito e conseguentemente anche la domanda.
Infatti, se circa la metà delle imprese italiane (quasi il 50%) ha all’attivo poco meno di 681 miliardi di euro di prestiti bancari, per contro, solo il 9,3% delle famiglie ha in essere un mutuo per l’acquisto della prima casa e un altro 6,1% detiene dei Titoli di Stato. Sulla base dei dati della Banca d’Italia, si evince che l’ammontare dei Bot e dei Cct/Btp in possesso delle famiglie è di 300 miliardi di euro, mentre l’indebitamento per mutui collegati all’acquisto dell’abitazione ammonta a circa 340 miliardi di euro.
La Cgia evidenzia come già negli ultimi anni sia sceso enormemente il credito concesso alle imprese: dal 2011 allo scorso mese di giugno la contrazione è stata di quasi 249 miliardi. “E’ vero – sottolinea il segretario, Renato Mason – che in parte ciò è stato dovuto anche alla diminuzione della domanda e all’aumento delle sofferenze generate dalla crisi, ma le ragioni principali vanno imputate all’applicazione di regole e parametri di giudizio di merito sul credito imposti agli istituti di credito dalla Bce, dalla legislazione europea e italiana”.
La Cgia segnala infatti che negli ultimi anni è aumentata l’incidenza delle commissioni nette (costi per tenuta conto corrente, i servizi bancomat/carte di credito, i servizi di incasso/pagamento, le gestioni patrimoniali, l’intermediazione e il collocamento titoli, ecc.) sui ricavi netti degli istituti di credito italiani. Ormai la percentuale raggiunta si aggira attorno al 40 per cento circa, un livello che non è riscontrabile in nessun altro paese europeo.