Banche sempre più attratte da tecnologia blockchain anche in vista MIFID II. Mentre start-up erogano prestiti garantiti da Bitcoin
MIFID II ed Ethereum, qual è l’associazione? In attesa che le nuove regole MIFID diventino operative il prossimo 3 gennaio, si mette in evidenza il progetto di un team di banche guidato da UBS, basato sulla tecnologia blockchain della moneta digitale Ethereum.
Obiettivo: velocizzare il rispetto delle regole, attraverso la creazione di un network capace di gestire un’ampia gamma di dati e di appurare la conformità degli stessi alle norme che devono essere osservate per ottenere il codice LEI, richiesto dal MIFID II.
Si tratta di un codice identificativo, precisamente di un “codice alfanumerico” a 20 cifre, che identificherà tutti i soggetti che parteciperanno a transazioni di natura finanziaria.
Il codice è emesso dai LOUs, ovvero dalle “Local Operating Units”, unità operative locali, che fanno parte del Sistema Globale del Lei.
Tali unità sono indicate dalle autorità in una lista ad hoc (tra di esse compare anche Bloomnberg Finance L.P. facente capo a Bloomberg), e sono responsabili della registrazione dell’operatore che ha ottenuto il codice, del rinnovo del codice e di altri servizi. Il loro scopo primario è quello comunque di attribuire un LEI a ogni soggetto legale che ne faccia richiesta.
L’espletamento di tale compito è cruciale, visto che l’ESMA, l’Autorità europea di mercati e strumenti finanziari, ha stabilito che tutte le società che non siano riuscite ad avere il proprio LEI non potranno partecipare alle operazioni di trading.
In un contesto di corsa contro il tempo, UBS e altre banche hanno deciso così di attingere alla tecnologia blockchain dell’Ethereum.
Come ha spiegato in un’intervista rilasciata a CoinDesk Peter Stephens, responsabile della divisione di ricerca blockchain presso UBS, questi “contratti blockchain assicureranno l’accuratezza dei dati quasi in tempo reale, ed eviteranno che ogni società sia costretta a verificare le informazioni in modo indipendente”.
Il sistema sarà anche capace di identificare eventuali “anomalie” e offrire una soluzione affinché gli errori vengano corretti in base alle regole richieste.
Il caso UBS conferma il crescente interesse delle banche verso la tecnologia blockchain.
Proprio tale interesse sarebbe alla base del poderoso rally non solo dell’Ethereum, ma anche della criptovaluta Ripple, che è salita di oltre +90% in una sola seduta, balzando di oltre +7000% dall’inizio dell’anno.
In particolare, il quotidiano finanziario giapponese Nikkei ha riportato che le banche giapponesi e sudcoreane hanno iniziato a sperimentare la tecnologia blockchain di Ripple lo scorso venerdì attraverso alcuni test che proseguiranno fino al prossimo 31 gennaio.
Se tutto andrà bene, le banche potrebbero iniziare a effettuare transazioni utilizzando la criptovaluta.
La stessa Ripple ha annunciato che sono più di 100 le istituzioni finanziarie che utilizzano la sua rete blockchain, e a novembre ha reso noto anche che la divisione International Payments di American Express e Santander utilizzeranno il suo network per effettuare pagamenti transnazionali tra gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Tutto questo avviene mentre alcune start-up hanno deciso addirittura di erogare prestiti a clienti che presentino il Bitcoin come garanzia. E’ quanto riporta un articolo di Bloomberg, sottolineando come si stia facendo sempre più affollato il panorama di quelle società pronte a creare un mercato del credito del tutto nuovo, alternativo a quello dei prestiti tradizionali.
Tra le start-up si mettono in evidenza Salt Lending, Nebeus, CoinLoan e EthLend. Alcune sono orientate a erogare prestiti – o li erogano già – direttamente, mentre altre aiutano chi è alla ricerca di credito ad ottenere finanziamenti da parti terze.
In particolare, alla fine di novembre, la start-up con sede a Londra Nebeus ha aiutato istituzioni finanziarie terze a offrire prestiti garantiti dal Bitcoin e dall’Ethereum.
La società ha contribuito all’erogazione di quasi 100 prestiti il primo giorno, arrivando a lanciarne più di 1000 fino a oggi.
Aaron Brown, ex managing director presso AQR Capital Management, che investe in Bitcoin e scrive per “Bloomberg Prophets”, ha commentato il fenomeno affermando che, in base alle sue previsioni, a essere interessati a utilizzare il Bitcoin come collaterale sarebbero gli operatori che controllano circa il 10% della moneta digitale.
“Prevedo un mercato del credito che potrebbe valere decine di miliardi di dollari“.
David Lechner, responsabile finanziario di Salt, altra start-up che ha organizzato decine di prestiti garantiti dalle criptovalute, ha fatto un esempio concreto, affermando che chi volesse ottenere 100.000 dollari in contanti dovrebbe probabilmente presentare una garanzia in Bitcoin del valore di $200.000.
Il punto è che, vista la volatilità dell’asset, ovviamente gli interessi da versare a fronte dei prestiti sarebbero elevati, aggirandosi secondo Lechner al 12-20% l’anno. Gli interessi sarebbero comunque in linea con i prestiti personali non garantiti.
La differenza risiederebbe nel fatto che, presentando come garanzia i Bitcoin, si potrebbero ottenere prestiti più elevati.
Tornando alle regole MIFID II, la direttiva (Market in Financial Instruments directive) è stata recepita in Italia con il decreto dello scorso 3 agosto, insieme al regolamento MIFIR (Markets in financial instruments regulation) e contiene i nuovi parametri a cui le imprese di investimento si dovranno conformare, a partire dall’anno prossimo.
L’obiettivo è di garantire una maggiore trasparenza delle negoziazioni e dunque una altrettanta maggiore tutela degli investitori. Le nuove norme dovranno essere osservate da chiunque acquisti o venda azioni, bond, valute, commodities o ETF, e il loro raggio di azione non sarà confinato alla sola Unione europea.
Le norme interesseranno tutti: banche, gestori di bond, mercati vari e piattaforme di trading, trader arrivi nell’high-frequency trading, broker, fondi pensione e investitori retail.
Al momento, la preoccupazione più viva sembra essere quella legata al LEI.
Indicativa la dichiarazione di un dirigente senior di una grande banca di affari, che ha detto al Financial Times che il “15-20%” dei clienti dell’istituto non dispone ancora del codice, aggiungendo di ritenere che la situazione non cambierà molto nelle prossime tre settimane.