Fed, Bank of England, SNB: la carica hawkish delle banche centrali per battere l’inflazione. Funzionerà?
L’inflazione divora l’economia e i risparmi: nel giro di poche ore, a una settimana circa dal rialzo dei tassi preannunciato dalla Bce per la riunione di luglio, Fed, Bank of England e SNB (Swiss National Bank) alzano i tassi principali di riferimento. Il motivo è lo stesso: l’impennata dell’inflazione. Tanto che negli Stati Uniti, dopo la maxi stretta della Fed, si parla di Volcker Shock, uno spettro che in realtà aleggiava sui mercati anche prima dell’annuncio della banca centrale Usa.
Inizia il Fomc, il braccio di politica monetaria della Fed, che ha annunciato una stretta di 75 punti base, come scommesso dai mercati, al nuovo range compreso tra l’1,5% e l’1,75%, valore record dal periodo precedente l’esplosione della pandemia Covid-19. La stretta monetaria è la più forte dal 1994.
Segue in Europa la SNB, Banca centrale svizzera, che alza i tassi per la prima volta in 15 anni: la stretta è di 50 punti base, e porta i tassi dal -0,75% al -0,25% (sempre negativi). L’istituzione annuncia di prevedere ancora una crescita del Pil svizzero al tasso annuale del 2,5%, nel corso del 2022.
Ma le previsioni sull’inflazione di quest’anno vengono alzate dal precedente outlook del 2,1% a +2,8%. Viene alzato anche l’outlook sull’inflazione del 2023 e del 2024, rispettivamente ai tassi dell’1,9% e dell’1,6%.
Rialzo tassi globale: dopo Fed, tocca a SNB svizzera e a BoE
Arriva infine l’annuncio della Bank of England, BOE: la banca centrale del Regno Unito alza i tassi principali di riferimento degli UK di 25 punti base, dall’1% all’1,25%, ovvero record degli ultimi 13 anni.
Si tratta della quinta stretta consecutiva, che conferma la lotta della banca centrale contro l’inflazione, che galoppa al ritmo più alto degli ultimi 40 anni, pari a +9% su base annua. E, in seno alla Commissione di politica monetaria, i falchi hanno dovuto ingoiare anche il rospo: la decisione di alzare il costo del denaro di 25 punti base è stata infatti votata da sei dei nove membri della Monetary Policy Committee; tre membri del panel, ovvero Jonathan Haskel, Catherine Mann e Michael Saunders — hanno votato per un rialzo di 50 punti base, che avrebbe portato i tassi all’1,5%, e che sarebbe stato il più alto dal 1995. Ulteriori manovre restrittive sono all’orizzonte.
La Bank of England ha rivisto infatti al rialzo l’outlook sull’inflazione del Regno Unito di quest’anno, e ora prevede una fiammata dei prezzi “lievemente al di sopra” dell’11%.
L’esempio pratico sui mutui UK: notizia disastrosa per le famiglie
Non solo: le previsioni indicano una contrazione del Pil UK nel corso di questo trimestre. Quale l’impatto per i cittadini UK? Karen Noye, esperta di mutui presso Quilter, fa un esempio pratico: “A seguito dell’aumento dei tassi, oggi, all’1,25%, qualcuno con un mutuo che vale 250.000 sterline nell’arco di 25 anni pagherà 970 sterline circa. Se i tassi di interesse saliranno al 2%, le rate mensili dei mutui saliranno a £1.059, una differenza enorme di £89 sterline. Con i prezzi energetici e dei beni alimentari che stanno salendo, questa potrebbe essere una notizia disastrosa per le famiglie”.
Tra l’altro, “ulteriori strette monetarie non sono sicuramente fuori questione, elemento che potrebbe iniziare ad avere un impatto sui prezzi delle case. Il mercato immobiliare UK sta mostrando già segnali di rallentamento e deve essere ancora compreso in che modo potrà far fronte a ulteriori strette monetarie e all’accelerazione dell’inflazione. La prognosi non è buona“.
E non è buona neanche per i consumatori delle altre aree colpite dall’inflazione, che non ha toccato ancora il picco. Il dubbio che assilla gli operatori porta i nomi di stagflazione, di hard landing, di recessione, negli stessi Stati Uniti, alle prese con una Fed particolarmente hawkish.
Quasi il 70% degli economisti intervistati dal Financial Times e dalla Booth School of Business della University of Chicago crede che l’economia americana scivolerà in una fase di recessione l’anno prossimo. Ma la mossa della Fed, quella di allinearsi alle aspettative dei mercati con un rialzo di 75 punti base, è stata davvero giusta?
Volcker Shock oppure no? Economisti bocciano tutti Powell
Non la pensa così Paul Donovan, capo economista di UBS Global Wealth Management, che già prima dell’annuncio della banca centrale Usa aveva lanciato un avvertimento con il commento ‘Don’t feed the trolls’, e che oggi dirama un’altra nota, spiegando cosa è accaduto: “No – sottolinea – non siamo al cospetto di un Volcker shock.”
Il riferimento è all’ex presidente della Fed Paul Volcker che, come ha ricordato un articolo del Guardian precedente l’annuncio della Fed, “è diventato leggendario come il banchiere centrale che ha fatto scivolare la più grande economia del mondo in una profonda recessione, pur di scacciare l’inflazione dal sistema”.
Ora, fa notare il Guardian, si parla di Jerome Powell, attuale presidente della Federal Reserve, come del banchiere centrale che ha scoperto un Volcker dentro di sé. L’articolo del quotidiano britannico continua sottolineando che “Powell sta sperando di riuscire a garantire un soft landing per l’economia Usa, in cui il tasso di inflazione annuale possa essere ridotto senza scatenare una recessione”. Un obiettivo, tuttavia, che “potrebbe essere più difficile di quanto pensi”.
Un recente studio stilato dall’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers ha avvertito di fatto come Powell potrebbe essere costretto a lanciare una politica monetaria restrittiva di intensità simile a quella che venne lanciata da Volcker quaranta anni fa.
“Per permettere all’inflazione misurata dall’indice dei prezzi al consumo core di tornare al 2%, abbiamo bisogno quasi della stessa disinflazione di 5 punti percentuali che Volcker riuscì a garantire“.
Volcker alzò i tassi dal 10,5% del luglio del 1979 al 17,6% dell’aprile del 1980, portando poi il costo del denaro fino al 20% (finendo per causare una recessione).
C’è da dire che i tassi Usa ora oscillano tra l’1,5% e lo 1,75% dopo la mossa di Jerome Powell, neanche paragonabili a quelli di 40 anni fa.
Così Paul Donovan, nella sua nota odierna, ribatte a chi parla di Volcker Shock:
“La Federal Reserve ha alzato i tassi di 75 punti base. Questo non è un Volcker Shock (che significa prendere il controllo ( dei tassi) – con una strategia chiara. E’ piuttosto un “Burns Bumble”, con tanto di pressioni esterne che stanno minando la credibilità e la coerenza (della banca centrale). Per gli investitori, questo significa volatilità”.
Donovan ribadisce quanto detto in precedenza, ovvero che “l’inflazione headline CPI (indice prezzi al consumo) non è un parametro superiore: è piuttosto un dato politico”.
“La forward guidance – rimarca l’esperto – non è più affidabile (non aveva detto poco tempo fa, lo stesso Jerome Powell, che una stretta di 75 punti base non era sul tavolo della Fed?). Il presidente della Fed ha suggerito che il prossimo rialzo potrebbe essere di 50 o 75 punti base, ma visto che la guidance cambia a seconda del vento, perchè non un rialzo pari a zero o di 100 punti base?”.
Donovan fa notare come si dia ormai più importanza all’indice dei prezzi al consumo headline che non all’indice PCE core, che in teoria dovrebbe essere il parametro preferito dalla Federal Reserve. Il commento del capo economista di UBS Global Wealth Management fa sorgere il dubbio che siano cambiati gli stessi parametri su cui prima si faceva affidamento per esaminare la direzione dell’inflazione, almeno in Usa.
Qui le critiche continuano a fioccare.
‘Un grande errore’, commenta Robert Reich, ex segretario al dipartimento del Lavoro Usa: “fare affidamento sulla Fed affinché faccia scendere i prezzi è come trattare qualcuno che ha la febbre mettendolo in un freezer. In questo modo non si cura la vera malattia, e si rischia di peggiorare le cose”.
Gli economisti iniziano a paventare un Volcker Shock, a dispetto di quello che ha spiegato Paul Donovan (che comunque ha criticato la stretta di 75 pb della Fed).
“Si sa bene che la maggior parte dell’inflazione a cui stiamo assistendo deriva da fattori che hanno poco a che fare con la solidità dell’economia Usa – ha detto Dean Baker, economista senior del Center for Economic and Policy Research – Il balzo dei prezzi del petrolio è dovuto all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e dalle conseguenti sanzioni. I rialzi dei tassi da parte della Fed non faranno scendere i prezzi del gas”. Un commento che riporta alla mente quello proferito pochi giorni fa dal braccio destro di Mario Draghi, l’economista Francesco Giavazzi, che ha criticato l’intenzione della Bce di dare il via a una carrellata di strette monetarie.
Giavazzi ha fatto notare che l’inflazione dell’area euro è diversa da quella degli Stati Uniti, in quanto provocata dall’aumento dei prezzi del gas, non dalla domanda domestica. Ma dalle dichiarazioni di Baker emerge che anche negli Stati Uniti è diffusa la percezione che, alla base della fiammata dei prezzi, ci sia la componente colpa di Putin. E che quindi la Fed davvero possa fare poco.