Rischio recessione fa paura anche a Trump. Che valuta taglio tasse a lavoratori dipendenti
A dispetto di quanto scrive su Twitter, non mancando spesso di gongolare per lo stato di salute dell’economia della sua “America First”, Donald Trump teme (anche lui) l’arrivo di una recessione negli Stati Uniti. Uno scenario che gli si ritorcerebbe pesantemente contro, nell’Election Day del 2020.
Trump non lo dice pubblicamente. Tutt’altro: nei suoi tweet parla spesso di economia solida, economia molto forte. Tuttavia, come ha rivelato Politico, in privato sia il presidente americano che il suo staff “sono sempre più preoccupati per il rischio che il rallentamento dell’economia globale finisca per scatenare una recessione” negli States.
E’ per questo motivo, e in vista delle elezioni presidenziali del 2020, che il tycoon newyorchese e la sua squadra starebbero valutando diverse opzioni per risollevare i fondamentali Usa. L’obiettivo è presentare agli elettori Usa un’economia in forma smagliante, come prova dell’efficienza della sua amministrazione.
Quelle che fino a ieri erano indiscrezioni sull’avvento di un nuovo round di taglio delle tasse sono state confermate così dallo stesso presidente. Trump ha ammesso di star valutando “diversi tagli alle tasse”, inclusi i tagli alle tasse che pesano sulle buste paga dei lavoratori dipendenti, per stimolare una congiuntura che sta iniziando a rallentare il passo.
“Le tasse sulle buste paga (dei lavoratori dipendenti) – ha detto Trump confermando i rumor che inizialmente erano stati riportati dal Washington Post – sono qualcosa a cui sto pensando. A molta gente piacerebbe (che venissero tagliate)”.
Confermate anche le voci sull’intenzione di tagliare le tasse sui guadagni in conto capitale.
Non è mancato l’ennesimo affondo contro la Fed di Jerome Powell: un nuovo taglio delle tasse dopo la rivoluzione fiscale approvata dal Congresso Usa a fine 2017, ha spiegato il presiente, non sarebbe necessario infatti se la Federal Reserve “facesse il suo lavoro”, tagliando ulteriormente i tassi sui funds Usa.
Sebbene il pericolo di una recessione Usa sia stato minimizzato (“Siamo molto lontani da una recessione”), e il riferimento sia stato piuttosto alla necessità che il governo agisca per tutelare l’economia da una fase di rallentamento, garantendone la competitività, in molti confermano che Trump ha paura.
Da segnalare che, nel corso del secondo trimestre, il Pil Usa ha rallentato il passo in modo notevole, crescendo al ritmo annuale del 2,1%, rispetto al +3,1% del primo trimestre dell’anno. Le spese per consumi sono rimaste tuttavia solide nel mese di luglio, e il tasso di disoccupazione continua ad aggirarsi attorno ai minimi storici.
Detto questo alcuni economisti e analisti di Wall Street, citando gli effetti della guerra commerciale Usa-Cina e del rallentamento economico globale, prevedono una recessione made in Usa entro il 2021. E il timore che uno scenario del genere si concretizzi, se non da Trump, è stato espresso chiaramente in occasione di un evento di raccolta fondi che è stato organizzato questa settimana a Jackson, nello stato dello Wyoming (lo stesso posto in cui si terrà il simposio delle banche centrali di Jackson Hole).
In quell’incontro, che è avvenuto a porte chiuse, il responsabile dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney ha ammesso di fronte alla platea dell’elite dei repubblicani che il rischio esiste, laddove ha detto – stando a Politico – che, se gli Stati Uniti dovessero far fronte a una recessione, questa sarebbe “moderata e breve”.
Tornando al piano dei tagli alle tasse su cui Trump si starebbe concentrando, e in particolare sul taglio alle tasse che gravano sui guadagni in conto capitale, Politico riporta che un modo potrebbe essere quello di indicizzare i suddetti guadagni all’inflazione: in questo modo, parte di essi potrebbe essere esentata dalla tassazione.
“E’ da tempo che parliamo di questa indicizzazione – ha detto lo stesso presidente ai giornalisti, nella giornata di ieri – E posso farlo direttamente”.
Un qualsiasi altro taglio delle tasse dovrebbe essere approvato dal Congresso che, dopo le elezioni di metà mandato, è però a maggioranza democratica.