Wall Street debole post report occupazione. Inversione curva rendimenti nel tratto 2-10 anni, paura recessione assedia i mercati
Wall Street cauta dopo la diffusione del report occupazionale Usa di marzo. Passate le 16 ora italiana, il Dow Jones sale di appena lo 0,07% a 34.702 punti; il Nasdaq avanza dello 0,14% a 14.243 punti, mentre lo S&P 500 sale dello 0,15% a 4.537 circa.
Il dato Usa ha messo in evidenza una crescita dei posti di lavoro di 431.000 unità, a un ritmo inferiore rispetto ai +490.000 previsti dagli analisti ma comunque in solido rialzo. Va sottolineato tuttavia che il dipartimento del Lavoro Usa ha rivisto al rialzo i dati di gennaio e febbraio. A gennaio, l’aumento delle buste paga è stato di 504.000 unità, più del rialzo di 481.000 unità precedentemente reso noto. A febbraio, l’aumento è stato di 750.000 unità, più del rialzo di 678.000 unità comunicato in precedenza.
La partecipazione alla forza lavoro si è inoltre rafforzata, sebbene in misura lieve, dal 62,3% di febbraio al 62,4%, e il tasso di disoccupazione è sceso al 3,6% dal 3,8% precedente, meglio del 3,7% stimato dal consensus.
In linea con le previsioni di una crescita pari a +0,4% il rialzo dei salari medi orari, che su base annua sono avanzati del 5,6%, oltre le attese, e a conferma della fiammata dell’inflazione negli Stati Uniti.
“I numeri sul lavoro si sono confermati più deboli delle attese, in un contesto in cui alcuni indicatori sul sentiment già puntano verso il basso – ha commentato alla Cnbc Neil Birrell, responsabile della divisione degli investimenti di Premier Miton Investors – Tuttavia, i posti vacanti di lavoro continuano a essere riempiti, la crescita dei salari rimane robusta e l’economia versa in buone condizioni di salute. La questione è rappresentata dall’impatto che i tassi più alti e il rallentamento della crescita avranno sul mercato del lavoro e sull’economia in senso più ampio”.
Dopo la pubblicazione del report occupazionale Usa, la curva dei rendimenti Usa è tornata a invertirsi nel tratto tra 2 e 10 anni, dopo che, prima del dato, l’inversione aveva interessato, nuovamente, il tratto tra 5 e 30 anni, che si era invertito all’inizio della settimana per la prima volta in 16 anni.
In realtà nella sessione di ieri, per la seconda volta dall’inizio della settimana, era tornata a invertirsi anche la curva tra 2-10 anni.
La situazione era tornata alla normalità prima della diffusione del dato, per poi cambiare nuovamente: al momento lo spread più monitorato dai mercati, ovvero il differenziale tra i tassi dei Treasuries a 10 anni e tra i tassi dei Treasuries a 2 anni, è di nuovo negativo, con i tassi decennali in rialzo di 9 punti base al 2,41% e i tassi a due anni a un livello più alto, in crescita di 14 punti base, al 2,43%.
Lo spread dei tassi a 2-10 anni viene considerato da diversi economisti un parametro anticipatore dei periodi di recessione negli Stati Uniti. Altre parti della curva Usa rimangono invertite: i tassi a 5 anni sono in rialzo di 10 punti base, al 2,52%, livello superiore rispetto ai tassi a 30 anni, che aumentano di 7 punti base al 2,51%.
Oltre all’inflazione da guerra, gli investitori temono sempre di più che la Fed, rimasta indietro nella lotta contro l’inflazione, finisca per aumentare i tassi a un livello tale da provocare un deterioramento dell’economia americana, dunque un hard landing.
In generale, Wall Street spera nella ripresa del trend con l’avvio del secondo trimestre dell’anno, dopo essersi lasciata alle spalle il trimestre peggiore dai primi tre mesi del 2020, quando in tutto il mondo scattò l’allarme della pandemia Covid-19.
Ieri sessione negativa per i principali indici azionari Usa:
il Dow Jones Industrial Average ha perso 550,46 punti, -1,56%, a 34.678,35 punti; lo S&P 500 è scivolato dell’1,57% a 4.530,41 punti, mentre il Nasdaq Composite ha chiuso in flessione dell’1,54% a 14.220,52.
Nel corso del primo trimestre, il Dow Jones ha ceduto il 4,6%, lo S&P 500 il 4,9%, mentre il Nasdaq è capitolato di oltre il 9%. L’azionario Usa ha messo a segno tuttavia un forte recupero proprio nell’ultimo mese, in quello che potrebbe essere definito un rally da guerra, visto l’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina del 24 febbraio scorso.
I mercati continuano a prestare attenzione alla guerra in Ucraina e al ricatto ‘gas della Russia solo con pagamenti in rubli’, che è stato confermato nella giornata di ieri dal presidente Vladimir Putin.
“Per acquistare gas russo, vanno aperti conti in rubli nelle banche russe”, ha detto Putin in un discorso televisivo. “È da quei conti che verrà pagato il gas a partire dal 1° aprile. Se tali pagamenti non vengono effettuati, considereremo questo un mancato rispetto da parte del cliente dei propri obblighi”. Secondo un ordine firmato da Putin e riportato dall’agenza Bloomberg, gli acquirenti dovrebbero aprire conti speciali nella Gazprombank controllata dallo stato russo per consentire lo scambio di valuta estera in rubli. In realtà diversi esperti hanno già bollato il ricatto di Putin alla stregua di un bluff, praticamente più una conferma della macchina della propaganda che una vera e propria minaccia.
Da un punto di vista prettamente logistico il grande problema è la capacità di stoccaggio domestica della Russia, che è limitata, inferiore alla metà della quantità che viene esportata in Europa ogni anno. Una volta riempiti i depositi di stoccaggio, Gazprom dovrebbe smettere di produrre gas in quanto non potrebbe dirottare facilmente e soprattutto velocemente il gas in eccesso ad altri mercati.
Tra l’altro, riporta il Financial Times, da un punto di vista prettamente operativo, anche se Putin decidesse davvero di chiudere i rubinetti del gas in caso di mancati pagamenti in rubli, i cosiddetti paesi ostili potrebbero continuare a pagare comunque in euro almeno per un altro mese, visto che i pagamenti relativi alla maggior parte delle consegne di aprile non sono dovuti fino al mese di maggio.
In evidenza anche i prezzi del petrolio, dopo l’annuncio del presidente americano Joe Biden relativo al rilascio di una quantità di riserve strategiche di petrolio fino a 1 milione di barili al giorno, per smorzare la corsa dei prezzi della benzina e alleviare il peso dell’inflazione da guerra che i consumatori americani stanno sostenendo.
Il rilascio andrà avanti per un periodo di sei mesi, per una quantità liberata che sarà complessivamente di 180 milioni di barili.
Le forti vendite hanno portato il WTI sotto quota $100 al barile: il contratto recupera tuttavia la soglia, azzerando le perdite, così come azzera le perdite guadagnando lo 0,40% circa, riagguantando la soglia di 105 dollari.